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Il ricatto del “sultano” Erdogan

Aggiornamento: 4 gen 2023

di Davide Rigallo

Non sappiamo ancora quanto sarà alto il prezzo che, sul piano migratorio, le popolazioni curde del nord della Siria dovranno pagare per l’avanzata dell’esercito turco. Ad oggi, non siamo in grado di prevedere se gli effetti delle violenze sulle popolazioni civili rimarranno compresse nel teatro bellico mediorientale, oppure se coinvolgeranno anche i paesi europei, con nuovi flussi di persone in fuga. Al momento, conosciamo con certezza le arroganti minacce di Erdogan all’Ue – Se tentate di presentare la nostra operazione come un’invasione, apriremo le porte e vi invieremo 3,6 milioni di migranti, ha dichiarato al Parlamento turco – e le paure dei paesi Ue di trovarsi davanti a una riedizione della crisi dei profughi del 2015-2016, con crescenti masse di richiedenti asilo in ingresso alle frontiere (quando sopravvissuti ai pericoli degli attraversamenti) e politiche di accoglienza rimaste inadeguate e discordanti. Anche se questo scenario non dovesse ripetersi, le azioni e i ricatti del presidente turco mettono a nudo una delle colpe più profonde della politica migratoria europea: l’avere pensato che i movimenti migratori si possano frenare mediante la creazione di “stati-diga” situati a un passo dalla propria frontiera esterna, autentici “imbuti” dove concentrare, arrestare o rimpatriare masse di migranti, non importa a quale prezzo in termini di diritti fondamentali. A questa logica risponde l’accordo Ue-Turchia che, dal 18 marzo 2016, fa dello stato di Erdogan una delle principali “dighe” anti-migranti, a dispetto delle forti riserve per il mancato rispetto delle libertà fondamentali e per il disegno nazionalista del governo di Ankara. Un accordo che, in cambio di rimpatri, controlli stringenti e internamenti di migranti, ha come contropartita l’impegno dell’Ue a sostenere finanziariamente l’operazione (6 miliardi di € complessivi), ad accelerare il processo di integrazione europea della Turchia e ad abolire i visti per i cittadini turchi che vogliano varcare i confini dell’Unione. A poco valgono i ripetuti monitoraggi, gli avvertimenti, le sospensioni delle erogazioni finanziarie da parte di Bruxelles di fronte alle accertate violazioni dei diritti umani: come giustamente osserva Germana Tappero Merlo su questa rivista, i veri interessi di Erdogan sono noti ai poteri europei fin dall’inizio, e le conseguenze dell’invasione contro i curdi in Siria non debbono sorprendere più di tanto. L’errore europeo si colloca ben più a monte, nella strategia poco lungimirante degli “stati-diga” quale soluzione per la gestione dei flussi dei migranti. Una strategia che rientra nella “politica europea di vicinato”, e fa il paio con il progetto di rafforzare i confini esterni dell’Ue e di restringere possibilità regolari di ingresso nei paesi europei aumentando i sistemi di controllo: alle frontiere e nei cosiddetti “paesi di transito”. Una strategia, ancora, che ammette la negoziazione con governi palesemente illiberali, fortemente soggetti a interessi militari che possono variarne, anche in maniera radicale, alleanze e affidabilità. La Turchia non è l’unico, né il primo degli “stati-diga”. Nel continente africano, ad esempio, sono 26 i paesi a cui la Commissione europea destina fondi per azioni che includano il controllo delle migrazioni. Raggruppati in tre grandi aree curiosamente denominate “finestre” (Sahel e Lago Ciad, Africa settentrionale, Corno d’Africa), questi stati sono i territori di origine e, soprattutto, di transito dei migranti[1]. Spesso, come nel caso della Libia, costituiscono le penultime stazioni delle rotte migratorie prima dell’approdo in Europa. Pur nelle specificità dei contesti, le analogie tra Turchia e Libia non sono poche e meritano di essere considerate. Se infatti l’accordo Ue-Turchia è stato sostanzialmente siglato per bloccare la “rotta balcanica” percorsa in massa prevalentemente da profughi siriani, curdi e iracheni, i complessi negoziati con la Libia guardano, con analogo scopo, alla “rotta del Mediterraneo centrale”. Tutti e due i paesi, inoltre, presentano difficili situazioni di sicurezza interna, in Libia per la perdurante guerra civile, in Turchia per l’involuzione autoritaria del suo governo: condizioni che rendono labili le “garanzie” di controllo sui migranti che i due stati ostentano all’Ue anche mediante l’efferatezza delle relative polizie di frontiera.

Infine, c’è il parallelo storico. Le recenti minacce rivolte da Erdogan ai paesi europei ricalcano da vicino quelle espresse a suo tempo da Gheddafi. Era l’agosto del 2010 quando il rais libico, forte del Trattato di amicizia italo-libico sottoscritto due anni prima, faceva pubblicamente leva sull’Italia perché convincesse gli alleati europei a dare alla Libia 5 miliardi di € all’anno per bloccare i migranti sul proprio territorio: La Libia è l’ingresso dell’immigrazione non gradita. Contrastare l’immigrazione clandestina è un’opera grande per l’Europa e per tutta l’Africa. Più o meno le stesse frasi ripeterà nel il 2011, con la guerra civile già esplosa, a pochi mesi dalla sua capitolazione. Avvertimenti, minacce, ricatti, provocazioni ufficialmente stigmatizzati dall’Ue, ai quali sono però seguiti negoziati e accordi in cui l’argine ai migranti è sempre risultato centrale. Accordi, giova ancora ricordare, che l’Ue ha ripreso con i labili poteri che hanno sostituito quello di Gheddafi, quasi a confermare un continuum strategico che sembra non ammettere discussione: quello di creare “stati-diga” anti- migranti a un passo dall’Europa.

Complessivamente, la strategia degli “stati-diga” sta condizionando l’intera politica migratoria dell’Ue e, se non cambiata radicalmente, rischia di produrre effetti contrari agli stessi obiettivi che si prefigge, trasformando il contraente – ieri Gheddafi, oggi Erdogan – in ricattatore. Tuttavia, a dispetto di queste evidenze, non si intravvedono né la volontà, né il coraggio necessari a cambiare verso. Sfugge, probabilmente, l’entità della posta in gioco, che è ben più grande delle emergenze specifiche che si vogliono fronteggiare. Ne va, infatti, dei diritti fondamentali. Ne va delle vite delle persone migranti. E ne va dell’Ue, che, per sua definizione, dovrebbe essere “uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia che mette al centro della sua azione la persona”. Note [1] Il riferimento è al Fondo fiduciario di emergenza per l’Africa, adottato al Vertice straordinario Ue-UA sulle migrazioni svoltosi a La Valletta, l’11-12 novembre 2015. Sono, infatti, numerose le voci che hanno sollevato dubbi circa l’impiego delle risorse del fondo per azioni di “contenimento dei migranti”, anziché di aiuto allo sviluppo dei paesi africani.


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