Stretto di Bab el-Mandeb: crisi e considerazioni operative
Aggiornamento: 25 gen
di Marco Bandioli*
Oggi , 25 gennaio, è convocato il Consiglio dei Ministri a Palazzo Chigi. All'ordine del giorno vi è la modifica alla legge 21 luglio 2016, n. 145 sulla partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali, prologo alla discussione che si aprirà a breve sull'impegno dell'Italia nella missione militare europea che si profila nel Mar Rosso. Un provvedimento dunque reso urgente dalla situazione critica che si registra nell'area sotto l'attacco al commercio marittimo delle milizie Houthi, operazioni promosse con elicotteri e lancio di missili.
Uno scenario di guerra che si propone da oltre un mese, cui Usa e Gran Bretagna hanno risposto con l’operazione «Prosperity Guardian». Il gruppo armato yemenita ha minacciato di trasformare lo scontro in un "cimitero" per le forze statunitense. Intanto, con la prospettiva di organizzare una missione militare di "natura difensiva", come ha specificato il ministro degli Esteri Antonio Tajani, con Germania e Francia, l'Italia ha inviato nel Mar Rosso la «Federico Martinengo», fregata multiruolo e multimissione per la sorveglianza marittima in prossimità dello stretto di Bab el-Mandeb e garantire la libertà delle rotte commerciali. Che cosa significhi questo "tecnicamente", ce lo spiega Marco Bandioli.
Il concetto di “Libertà dei mari” è antico ed è relativo alla possibilità di poter liberamente navigare in “alto mare”, ovvero nelle “acque internazionali”, senza che si verifichino situazioni, o che vengano messe in atto azioni, che mettano in pericolo o a rischio tale libertà oppure si presentino attività che vincolino, limitino o neghino in qualche modo il cosiddetto “transito inoffensivo” delle navi in aree di mare o di oceano. Tale concetto è intimamente connesso con il “Potere Marittimo” (Sea Power/Maritime Power), che rappresenta il complesso delle capacità marittime (mercantili, militari, portuali, industriali, commerciali ed economiche) di una Nazione per l’utilizzo e lo sfruttamento del mare. Come derivato sostanzialmente paritetico si individua quindi il “Potere Navale” (Naval Power), ovvero la capacità di una Nazione di operare militarmente con navi da guerra, ovvero con “unità navali”, sia in mare che in oceano per la difesa della Nazione e per la tutela degli interessi nazionali.
Il Potere marittimo, più estensivamente, si esercita anche attraverso la capacità di esercitare il controllo di quei tratti di mare di importanza strategica, come i canali e gli stretti, dove le acque si restringono e le coste si avvicinano e dove sia l’accessibilità che il transito delle navi risultano, per molteplici motivi, di importanza vitale. Dottrinalmente parlando, tali importantissimi “punti geografici” vengono definiti “Choke points”, ovvero “Punti di strangolamento” (più delicatamente detti anche “Punti di restringimento” o “Colli di bottiglia”), i più importanti dei quali sono i seguenti: stretto di Gibilterra, canale della Manica, canale di Malta, stretto di Messina, stretto dei Dardanelli, stretto del Bosforo, canale di Suez, Capo di Buona Speranza, canale di Panama, stretto di Malacca, stretto di Taiwan, stretto di Hormuz, stretto di Bab el-Mandeb.
La loro importanza strategica è determinata dal fatto che molte delle più importanti e trafficate rotte commerciali del pianeta, definite “Linee marittime di comunicazione” (SLOC - Sea Lines Of Communication), passano proprio attraverso questa sorta di corridoi geografici obbligati. Ma questi choke points sono importanti anche per un altro motivo. Contrariamente a quanto si sia portati a ritenere, la trasmissione dati di internet non avviene solamente attraverso cavi terrestri di interconnessione o via etere tramite ponti radio e satelliti ma anche, e soprattutto, attraverso cavi che alloggiano all’interno di condotti sottomarini adagiati e ancorati sul fondo dei mari e degli oceani. Basti pensare che il 17% del traffico mondiale di internet viaggia attualmente sui fondali marini dello stretto di Bab el-Mandeb. Lo stretto - “la porta del lamento” - è sostanzialmente la porta meridionale del Mar Rosso e, come tutti i punti geografici di passaggio obbligato, rappresenta un’area particolarmente indicata su cui poter effettuare attacchi di diversa natura e consistenza da posizioni tatticamente vantaggiose.
Quel tratto d'acqua consente il transito, in entrambe le direzioni di ingresso e di uscita, tra il Mar Rosso ed il Golfo di Aden–Oceano Indiano e, contestualmente, divide le coste africane di Gibuti ed Eritrea dalle coste arabiche dello Yemen. Ha ufficialmente una larghezza di 20 miglia nautiche (≈ 35 Km.), una lunghezza di 70 miglia nautiche (≈ 130 Km.) ed una profondità massima di circa 300 metri. Nel punto di maggior restringimento nelle acque yemenite è presente l’isola di Perim proprio davanti alla penisola di Sheikh Said (detta anche Ras Menheli) e, più a nord ma ancora in acque yemenite, l’arcipelago di Zuqur Hanish, costituito da due isole maggiori e da alcuni isolotti… insomma una orografia costiera che potrebbe nascondere qualche insidia.
Lo Yemen è stato considerato da sempre un paese instabile e pericoloso e, a dispetto di quei turisti incoscienti che vi si recavano per ritrovare sé stessi e una nuova spiritualità, ogni volta che le navi militari dovevano transitare nello stretto di Bab el-Mandeb, e questo già una ventina di anni fa, assumevano a 40 miglia (≈ 75 Km.) dallo stretto stesso lo stato di massima allerta con armi ed equipaggio pronti al combattimento. Ma da allora le situazioni sono cambiate in peggio e lo stretto di Bab el-Mandeb è assurto agli onori della cronaca a seguito degli attacchi effettuati da parte delle milizie paramilitari yemenite “Houthi” (nome ufficiale “Ansrallah”, militarmente codificati come “terroristi” con la sigla SDGT: Specially Designated Global Terrorists) ai danni di navi mercantili in transito in Mar Rosso a partire dalla data del 19 ottobre 2023.
Per inciso, tali attacchi sarebbero stati effettuati come sostegno ai gruppi terroristici palestinesi di Hamas per colpire i sostenitori di Israele e quindi quelle navi collegate ai commerci e agli interessi israeliani e, secondariamente, anche quelle navi collegate agli interessi americani e britannici. Gli Houthi sono degli yemeniti mussulmani della fazione islamica sciita zaidita (quindi in contrapposizione ai sunniti wahabbiti) guidati da Abdulmalik al Houthi (da cui il loro nome), ora capo indiscusso di quasi 120.000 uomini, che nel 2014 ha iniziato una guerra civile, tutt’ora in corso, che ha portato gli Houthi ad avere il controllo totale della parte occidentale dello Yemen e della capitale Sanaa. Tutto questo è potuto avvenire grazie ad un considerevole aiuto iraniano in termini di finanziamenti e di armi ad alto livello tecnologico.
Quelli che prima erano banditi con le ciabatte con l’infradito ed il kalashnikov a tracolla adesso sono miliziani/terroristi dotati di droni (marini ed aerei), munizioni circuitanti (i cosiddetti “droni suicidi”), razzi, missili, elicotteri e, quasi sicuramente, mine navali. Hanno in dotazione sistemi d’arma ed armi in grado di colpire le navi anche a grandi distanze, dall’entroterra. senza doversi necessariamente avvicinare alla costa. Possiedono armi che hanno elevate capacità tecnologiche, peraltro molto costose (si va da ordigni che, a seconda delle capacità operative, vanno singolarmente da un costo minimo di 20.000 euro ad un costo di 1 o 2 milioni di euro).
Gli Houthi poi, avendo ricevuto le cose gratuitamente, di certo non vanno a sottilizzare se impiegano un missile da 500.000 euro per abbattere un drone da 50.000 (i costi sono indicativi ma realistici). Le differenze tecniche, le capacità operative e l’impiego tattico delle numerosissime tipologie di munizionamento, di mitragliatici, di mitragliere, di cannoni, di razzi, di missili, di droni, di mine e di siluri che sono presenti su una nave da guerra (o che possono essere imbarcati all’occorrenza) rappresentano un argomento che ha una portata enciclopedica, senza contare l’ulteriore argomento sulle capacità operative aggiuntive fornite da differenti tipologie di aerei, elicotteri, mezzi anfibi e battelli pneumatici d’assalto (imbarcati o in supporto diretto).
Per dare tuttavia un’idea di una delle numerose possibili minacce e dei tempi di reazione che deve avere una nave in caso di un attacco missilistico si fa ora un esempio: prendendo in considerazione il lancio di un missile “antinave” tipo “superficie-superficie” (e quindi lanciato da una nave nemica o da una postazione terrestre, ma non da un velivolo) contro una nave militare in “navigazione isolata”, ovvero senza il supporto tattico di navi o velivoli che forniscano per tempo un “allarme lontano”, tale nave ha la possibilità di intercettazione e distruzione del missile in arrivo in un lasso di tempo che si aggira sugli 8 o 9 secondi al massimo.
E’ opportuno ricordare che un missile di questa tipologia è progettato per effettuare un attacco di precisione (≈ 1 o 2 mt.) a lungo raggio (≈ 180 Km./ 97 miglia nautiche), ha come motore una turbina a reazione, un sistema di guida radar attiva e integrata con la possibilità di aggiornare le coordinate di attacco e di effettuare una ricerca attiva del bersaglio in fase finale, viaggia all’altezza di un paio di metri sulla superficie del mare alla velocità di crociera di circa 300 mt./sec. (≈1000 km./h), trasportando circa 200 kg. di alto esplosivo. In ragione di quanto detto, in termini meno navali, un missile di tale genere lanciato da Torino può raggiungere Milano (≈ 125 Km.) in circa 7 minuti e sventrare un intero palazzo entrando dalla finestra che gli è stata elettronicamente indicata.
Tornando ora allo stretto di Bab el-Mandeb ed agli attacchi effettuati a danno di navi mercantili in transito, la comunità internazionale sta già toccando con mano i gravi danni economici causati dal cambiamento delle rotte commerciali, costrette a circumnavigare l’Africa per evitare i pericoli ed i rischi che ora presenta una navigazione in Mar Rosso. Il problema risiede proprio nel citato concetto di “Libertà dei mari” e più precisamente della “salvaguardia della libertà di navigazione, della sicurezza delle navi in transito e delle merci trasportate” e quindi eventuali attività di difesa dei mercantili e di contrasto alle attività ostili in mare, e poter quindi transitare in questo caso nuovamente per lo stretto di Bab el Mandeb, rientra a pieno titolo in quelle operazioni di sicurezza marittima definite come “Maritime Security Operations” (MSO), ovvero quelle attività militari effettuate in una situazione di “non guerra” (“Military Operations Other Than War”-MOOTW) tese a combattere il terrorismo e varie attività illegali, fornendo quella protezione in mare necessaria per garantire una generale condizione di sicurezza.
Una missione di “Protezione convoglio”, ovvero quella che è chiaramente necessaria in questo caso specifico, da effettuarsi però in una situazione di crisi, o di guerra non dichiarata, presenta delle specificità e dei cavilli burocratici che non esistono quando un gruppo navale si muove in tempo di guerra che, pur avendo la stessa missione, naviga e combatte in modo totalmente indipendente, autonomo e con le proprie regole di ingaggio del nemico e di combattimento. In tempi di tensione o di crisi invece, dove generalmente qualche grossa organizzazione internazionale viene chiamata a gestire la questione, si costituisce un gruppo navale multinazionale creato per assolvere lo specifico compito (usualmente denominato “Combined Joint Task Force”– CJTF), in parte per il coinvolgimento politico di più soggetti ed in parte per dividere le spese.
In tali circostanze, risultano fondamentali cinque aspetti: la costituzione della forza navale, chi comanda, per quanto tempo è richiesto l’impegno operativo, l’aspetto logistico e l’aspetto giuridico. Deve essere chiarita in sede comune la consistenza e la struttura della forza navale che si vuole costituire e contestualmente il “contributo navale” richiesto ad ogni Nazione nonché il numero di navi mercantili che si devono/si possono proteggere in ogni singola missione.
Deve essere stabilita la catena di comando e controllo, per quanto tempo è necessario l’impiego delle unità assegnate e dopo quanto tempo può avvenire una eventuale sostituzione di unità navali, sempre dotate di quelle caratteristiche compatibili con la missione assegnata.
Una unità navale o un gruppo navale esplica le proprie attività in un teatro operativo lontano dal proprio Paese e pertanto ha la necessità di avere nelle proprie vicinanze una nave logistica/rifornitrice che soddisfi nell’immediato varie necessità (munizionamento, armi, combustibile non facilmente reperibile, pezzi di rispetto per apparecchiature e motori, medicinali, materiale elettronico particolare…): devono essere presi preventivamente degli accordi con dei Paesi vicini alla zona di operazioni che consentano la sosta e/o la permanenza di questa nave di supporto logistico presso qualche loro porto o base navale. Occorre ricordare, infine, che ogni Nazione ha una propria natura giuridica determinata da vari fattori.
L’impiego dell’uso della forza segue spesso criteri diversi ed ogni volta che si costituisce un gruppo militare multinazionale è imperativo concordare insieme, anche se si è in situazione di “non guerra”, quelle che vengono definite ufficialmente le “Regole di Ingaggio” (“Rules Of Engagement” – ROE), ovvero quelle direttive diramate dalle competenti autorità militari, che “specificano le circostanze ed i limiti entro cui le forze possono iniziare e/o continuare il combattimento con le forze contrapposte”…. anche questo argomento enciclopedico. In pratica si tratta di una serie di istruzioni predefinite che stabiliscono il comportamento tattico di una unità che si trova in zona di operazioni, consentendo, negando o limitando determinate azioni (in particolare l’uso della forza) al fine di permettere il conseguimento degli obiettivi politici e militari stabiliti dalle autorità responsabili. Di fatto, rappresentano la traduzione in termini militari della volontà politica, volontà che purtroppo non sempre appare attagliata e all’altezza della situazione.
*Contrammiraglio Marina Militare (r.)
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