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Il linguaggio comune dell’odio

Aggiornamento: 23 apr 2023

di Germana Tappero Merlo


Nella tarda serata del 19 febbraio scorso, si è consumato ad Hanau, in Germania, l’ennesimo attacco di matrice xenofoba. Una strage di 9 persone di nazionalità turca, con numerosi feriti, attuata da un singolo individuo con chiaro scopo terroristico e con un video-testamento politico colmo di deliranti esternazioni. Le modalità operative e comunicative hanno ricordato, però, le azioni terroristiche di tutt’altra tendenza, ossia quelle jihadiste, le cui rivendicazioni si rifanno ovviamente ad argomentazioni differenti. Tuttavia, il linguaggio del video dell’omicida di Hanau, com’era già avvenuto per altri attentati, ha manifestato attitudini simili e traslati ricorrenti anche nella comunicazione jihadista. Ciò perché derivano da un’unica matrice, ossia l’odio verso il differente da sé, dalla propria cultura, religione e tradizione. Un odio che non è più semplicemente marginato nel vissuto personale del terrorista di turno, ma che trova un consenso diffuso e radicato in una parte dell’opinione pubblica, tanto da evolvere in ideologia vera e propria. Insomma, per quanto opposti, il jihadismo radicale, l’eversione e l’intolleranza violenta xenofoba e antisemita di una generica estrema destra propria del mondo occidentale, risultano del tutto simili e addirittura integranti l’un l’altra. Considerazioni che partono proprio dal tipo di linguaggio utilizzato nella propaganda, nelle rivendicazioni e nei video-testamenti degli attentatori che, alla fin fine, risulta avere grandi affinità ed analogie. Insomma, si tratta di un linguaggio comune alle due estreme anime del terrorismo contemporaneo. Se si potesse tradurre questo estremismo in un’immagine, il linguaggio comune lo tradurrebbe non come un fenomeno lineare ma a ferro di cavallo, con le punte più vicine fra loro di quanto esse lo siano nei confronti del centro. Per chi, come me, per mestiere deve analizzare fatti, dichiarazioni, rivendicazioni e documenti di azioni terroristiche ed eversive o di violenza politica, per prevederne l’evoluzione e attuare azioni di contrasto, il fenomeno del ‘linguaggio comune’ dell’estremismo violento, di qualsiasi matrice ideologica o religiosa, non è affatto una novità. È presente da più di un ventennio, già prima dell’11 settembre 2001, quasi in contemporanea con l’esaurirsi delle semplici e tradizionali contrapposizioni ideologiche passate, con un andamento però crescente e più diffuso negli ultimi anni grazie anche all’utilizzo, da parte dell’eversione del nuovo millennio, di sistemi di comunicazione veloci ed i social network. Ciò che è meno noto è, invece, la relazione simbiotica che è venuta a crearsi fra gli innumerevoli soggetti o manifestazioni eversive che finiscono così per sostenersi vicendevolmente nell’intolleranza reciproca violenta, facendo un servizio a soggetti politici faziosi e settari, in una triangolazione di odio di difficile controllo, che sembra ora riprodursi all’infinito e senza limiti geografici. Avviene ciò che è stato definito “estremismo cumulativo”. In pratica, e detto con parole più semplici, l’estremismo di matrice religiosa, ad esempio jihadista, alimenta anche solo a parole ma con smisuratezza, quello xenofobo di movimenti politici dell’estrema destra, e viceversa. Il paradosso, però, e addirittura il risultato più rischioso, è che finiscono sovente per esprimersi, insieme, con argomentazioni violente ed aggressive condivise, quali l’antisemitismo e l’odio per lo straniero. Si tratta di una ‘radicalizzazione reciproca’ che pare creare un mutuo beneficio. Che si tratti di far propaganda per il jihad e inneggiare alla morte di infedeli, oppure di soddisfare il nichilismo di crisi identitarie di soggetti vulnerabili, come l’attentatore di Hanau o quello della sinagoga di Halle, in Sassonia, dell’ottobre scorso, quel linguaggio comune è una sorta di fertilizzante che alimenta l’odio reciproco e finisce per accrescere la tendenza alla radicalizzazione di entrambi e di altri fenomeni eversivi di là da venire. Gli argomenti comuni, poi, sono innumerevoli: la visione apocalittica del futuro dove domina, quasi sempre, una battaglia o una soluzione ‘finale’ a danno del nemico – che sia l’Occidente o l’Islam, non fa differenza – o addirittura l’inevitabilità della guerra o dello scontro fra civiltà o religioni. È sempre una lotta contro il comune rischio di venir travolti da un processo inarrestabile, che sia ‘l’islamizzazione dell’Occidente’ o ‘l’Occidentalizzazione dell’Islam’. Vi è sempre una vittima (il ‘noi’) contro un ‘demone’ (l’altro, il differente), da cui, appunto processi di ‘vittimizzazione’ e ‘demonizzazione’ ricorrenti su entrambi i fronti. Argomentazioni che ben si adattano all’instabilità politica o alle fasi di recessione o di crisi economica interna a molti Paesi, occidentali e non. Altro tema costante e comune sono i fenomeni immigratori, che non vengono più distinti fra legali ed illegali ma interpretati come un rischio generalizzato, ossia – come è accaduto anche nella campagna a favore della Brexit, quindi, ed è bene sottolinearlo, in un contesto non violento e non terroristico ma emblematico al riguardo – come il fatale ‘scambio di popolazione’ e la conseguente messa in pericolo dell’identità etnica e culturale, sino addirittura, alla ‘morte di una nazione’. Inevitabile che questo processo, fra settarismo e fanatismo, e in una sorta di realizzazione di vasi comunicanti, finisca per accrescere, vicendevolmente, l’intolleranza, quasi a legittimarla ai loro occhi, ripescando dalla storia argomentazioni – anch’esse valide per entrambi – come l’antisemitismo, il negazionismo dell’Olocausto e la pulizia etnica-religiosa, o i simboli come la svastica nazista o le bandiere nere con le citazioni del Corano per il ritorno del Califfato. Ciò che ora preoccupa chi deve contrastare il terrorismo e l’eversione di estrema destra o quello che si rifà al suprematismo bianco, a livello globale, è che soggetti come l’omicida di Hanau o quello di Halle, o l’australiano che a marzo del 2019 uccise 51 persone nelle moschee di Christchurch in Nuova Zelanda – per citare gli ultimi eventi – non si possano più definire come ‘cani sciolti’. Come i ‘lupi solitari’ del jihadismo – altro esempio di condivisione di questo linguaggio comune – si ha ormai la percezione che questi ultimi attori dell’eversione si sentano meno isolati e marginali di un tempo, e quanto invece legittimati ad agire attraverso una sorta di agenda politica comune, condivisa globalmente, la cui narrazione passa lungo la rete internet. Non solo emulazione, che è il rischio più ricorrente, quanto una sorta di movimento che già dispone di un’organizzazione globale in fieri. È la preoccupazione espressa in un articolo del New York Times di questi giorni che espone documentazione e report al Dipartimento di Stato che testimoniano come si sia di fronte a strutture di suprematisti bianchi e neonaziste organizzate come al-Qaeda negli anni ’80 e ’90 che, per il reclutamento e la propaganda, trascendeva i confini nazionali di Arabia Saudita o dell’Afghanistan. E si è visto ciò che al-Qaeda è riuscita a realizzare senza una politica iniziale, comune e condivisa globalmente, di prevenzione e contrasto da parte della comunità internazionale. Il timore, espresso dai redattori di quell’articolo, è che questo organismo, composto da molteplici gruppi inneggianti il suprematismo bianco, non sia più solo ed esclusivamente una minaccia interna agli Stati Uniti ma internazionale. Inoltre, sebbene con la condivisione all’estero di esperienze simili – come campi di addestramento in Ucraina, ad esempio – si teme che queste strutture non vengano classificate, a livello nazionale e internazionale, come ‘organizzazioni terroristiche’, impedendo, di fatto, di agire in maniera concorde e globale nel contrastarle con, ad esempio, la condivisione di informazioni fra intelligence nazionali oppure sanzionando eventuali Stati o formazioni politiche sponsor. Ovvio che si tratta di mancanza di cultura al riguardo da parte delle autorità politiche. Ma ciò che sottintende l’articolo è che si tratti altresì di volontà politica affinché ciò non accada. Eppure, il terrorismo è terrore, sempre, contro indistinti soggetti ed in ogni luogo del pianeta, con la medesima crudeltà e, a quanto pare, con il medesimo linguaggio. A questi ‘venditori ambulanti di odio’ – come li definisce il NYT – è ora di contrapporre, con risoluta coscienza, forme di contrasto politiche e legislative della portata o addirittura superiori a quelle utilizzate sino ad ora contro il jihadismo, contribuendo a formare una consapevolezza dei rischi che l’intera comunità, senza distinzioni geografiche, sta correndo nell’alimentare la radicalizzazione dell’estrema destra all’interno dei rispettivi confini nazionali, con portata però mondiale. Questo è già ora, come il suo acerrimo nemico ma al contempo alter ego, il terrorismo di matrice jihadista, un fenomeno pericoloso, globale, dinamico e multidimensionale. Questo è anche il primo e scontato risultato del linguaggio dell’odio come ideologia.


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