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Il bottino libico per Russia e Turchia. Non solo petrolio

Aggiornamento: 17 mar 2023

di Germana Tappero Merlo

La conferenza di Berlino sulla Libia è terminata con una road map di 55 punti che dovrebbe condurre verso una pacificazione delle parti in guerra. A rileggerli, come pure le dichiarazioni e i proponimenti di contorno, si ha la percezione di non essersi discostati molto da quanto già deciso a Palermo, nel novembre 2018, in un incontro molto simile fra i protagonisti libici, seppur allora con defezioni importanti. E si è visto, però, quanto è servito. Nulla. La guerra si è ingarbugliata ulteriormente, fra nuovi attori esterni e disillusioni interne. Allora, Berlino segna veramente un piccolo passo in avanti, come ha dichiarato la Cancelliera Merkel? È auspicabile, ma non così sicuro. Lo fa temere il comportamento del gen. Haftar, restìo a mollare le armi e i rubinetti dei pozzi petroliferi della sua Cirenaica e, almeno a parole, deciso a continuare nei suoi propositi di dominio sul territorio, raggiungendo militarmente anche la Tripoli del suo nemico al-Sarraj. Non è un caso che entrambi non abbiano firmato alcun accordo a Berlino.

Haftar è però anziano, stanco e, a detta di osservatori a lui vicini, disposto per questo ad accorciare i tempi, magari con un’offensiva militare ad oltranza se non ottiene dalla politica internazionale ciò che desiderano i suoi sponsor. L’unica garanzia che ciò non accada viene da Putin, che sostiene apertamente la Cirenaica di Haftar, supportata però militarmente e finanziariamente, ormai si sa, anche da Egitto ed EAU, a sua volta per nulla convinti della tenuta della tregua di questi giorni. Ed è inutile negarlo, se Berlino ha segnato un piccolo passo in avanti, è perché Putin ed Erdogan hanno deciso, in occasione dell’inaugurazione del TurkStream, l’8 gennaio, di tentare una svolta alla situazione libica. Senza quella buona volontà non si sarebbe messo in moto il carosello diplomatico di questi giorni.

A dimostrazione, ancora una volta, che l’Unione Europea, nel suo complesso, e men che mai le Nazioni Unite, non sono in grado di mediare ed incidere nella complessa ed articolata situazione interna ed internazionale della Libia del dopo Gheddafi senza fare i conti con Russia e Turchia. E i nuovi equilibri del dopo Berlino, sia chiaro, non potranno prescindere dalla volontà politica di Putin ed Erdogan, a cui seguiranno a lunga distanza quella degli Stati Uniti e, zoppicando, in ordine molto sparso, ognuno per conto proprio, quelle di ciascuno dei Paesi europei.

La spiegazione del nascente ‘dominio’ di Russia e Turchia sta tutta in ciò che Putin ed Erdogan sono riusciti a fare ed ottenere in Siria, là dove le intemperanze europee e le esitazioni di Obama, hanno dato origine a sfiducia e addirittura scetticismo da parte degli attori mediorientali (e in seguito nordafricani) sulla leadership degli Stati Uniti e sul ruolo di interlocutore obiettivo dell’Unione Europea. Una mancanza di fiducia che sta costando molto cara ad entrambi in termini di influenza politica – per riguadagnarsela gli Usa non hanno esitato ad operazioni come quella contro il gen. iraniano Soleimani -, mentre Russia e Turchia sembrano, per alcuni analisti – e come dargli torto? – quasi ‘risolutori’ o addirittura ‘potenze stabilizzatrici’ in diverse aree di crisi e di conflitto.

La Russia di Putin vede realizzarsi così la possibilità di ampliare la propria sfera di influenza non solo nel Mediterraneo centrale (il porto libico di Tobruk, già strategico per i sovietici durante la Guerra fredda, è un obiettivo), ma anche in Africa, dove, peraltro, Mosca sembra in ascesa da alcuni anni. Per questo Putin investe in supporto militare (non di truppe, ma di armi e contractors privati) e in mediazione politica là dove, seppur in presenza di crisi o conflitto, può crearsi basi d’appoggio. Il piano più ambizioso e, a parere di chi scrive, anche più pericoloso per le possibili ripercussioni in termini di nostra sicurezza nazionale, è dato tuttavia dal ruolo di Erdogan. Si è già scritto molto sulle sue ambizioni neo-ottomane; ma in Libia (e Nord Africa in generale) e, regione mai abbastanza studiata, anche nei Balcani, i vagheggiamenti turchi vanno ben oltre. Dal rifiuto, a suo tempo, proprio della Merkel e di Sarkozy a far entrare la Turchia in Europa e dalla degenerazione delle primavere arabe da rivolte interne a guerre civili e regionali, Erdogan non ha più fatto mistero delle sue ambizioni, con svolte islamiste interne e di influenza nel territorio dell’ex impero ottomano. Per realizzarle, Erdogan ha garantito aperto appoggio alla Fratellanza Musulmana, ha sostenuto forze jihadiste nello scenario mediorientale e, si sa, ora anche in Libia. La Fratellanza, però, è il nemico principale dell’egiziano al-Sisi e alleati, a cui si affianca da sempre l’azione violenta delle brigate libiche di madkaliti (un ramo del salafismo sunnita) a cui appartiene il gen. Haftar.

Un tempo tollerati da Gheddafi in funzione proprio anti Fratellanza, i madkaliti di Haftar si sentono ora legittimati a contrastare con le armi le inclinazioni islamiste avversarie di Erdogan e le sue pretese di dominio sulla Libia. In definitiva, si ripropone un ennesimo scontro interno al mondo musulmano sunnita, di difficile comprensione per un Occidente dall’approccio sempre economicista e per nulla avvezzo ai conflitti interni a culture diverse dalla sua. Ecco perché lo scenario si fa molto più complesso e pericoloso. La Turchia opera da tempo, infatti, e in competizione con l’Arabia Saudita, una sorta di soft power attraverso centri di cultura e costruzioni di moschee, dall’Africa all’Europa, dal Marocco, Tunisia, Sudan e, appunto, nei vicini Balcani, dove la più grande moschea europea (fra le tante progettate), sarà proprio a Tirana, in Albania, frutto di finanziamenti esclusivamente turchi.


Non da meno, come Putin, Erdogan mostra interesse anche per l’Asia centrale. Le ambizioni islamiste di Erdogan hanno così un peso del tutto particolare, in considerazione del fatto che la Libia, come altre realtà devastate dal dopo Primavere arabe, non ha nemmeno l’ombra di un’alternativa laica valida e condivisibile fra le innumerevoli realtà economiche, sociali e tribali di quella terra. Difficile immaginare un processo politico dal basso verso una tregua duratura o addirittura la pace per la Libia che non passi attraverso l’inclinazione islamista della Turchia e di altri soggetti ora coinvolti e in competizione. Non da meno, ad aggravare il tutto intervengono gli interlocutori europei perché, al di là delle dichiarazioni di buoni propositi, continuano ad approcciarsi al caos libico con preoccupazioni esclusivamente economiche: in primis, la fornitura di petrolio a rischio, a cui segue la minaccia dei migranti illegali e i relativi costi per la sicurezza e, per alcuni, la perdita di controllo di risorse o di rotte strategiche, come quelle del Greenstream.

Come avviene per la Francia, ad esempio, e il suo timore di perdere, oltre al petrolio, anche il controllo delle acque nubiane sottostanti il deserto libico (egiziano, ciadiano e sudanese) incanalate nei 4mila km di acquedotti del Grande Fiume Artificiale già di Gheddafi e che, dal sottosuolo della Cirenaica, portano acqua potabile sulla costa libica. Il desiderio delle grandi corporations francesi, Suez, Ondeo e Saur (che controllano il 45% delle acque dolci del pianeta), di privatizzare quelle acque fu il principale motivo che indusse Sarkozy ad attaccare la Libia nel 2011.

Non illudiamoci che qualcosa sia cambiato da allora e l’affanno di Macron nel sostenere Haftar lo dimostra. In definitiva, per dare una svolta alla Libia e al suo conflitto, bisognerebbe capovolgere totalmente l’approccio europeo. Non vi sono conoscenza, cultura e volontà politica adeguate e sufficienti per farlo, quando invece abbondano a dismisura lotte intestine (Francia e Italia, ad esempio) per accaparrarsi risorse strategiche dagli ingenti interessi economici e finanziari. E poi, si sa, come ha sostenuto al-Sarraj, l’Europa ha perso troppo tempo e ora arranca affannata in una competizione dal risultato già scontato. Meno prevedibile sarà l’esito della convivenza in Libia fra le pulsioni islamiste di Erdogan e quelle di potenza di Putin. Ma questo è un altro capitolo di una storia di confronti in Libia che pare infinita.


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