top of page

Carestie e guerre, l'abisso del Corno d'Africa

di Germana Tappero Merlo

Siccità e carestia stanno minacciando parte del Corno d’Africa, quella regione che si affaccia sull’Oceano Indiano e lo strategico Golfo di Aden; in particolare in Somalia [1], Kenya ed Etiopia, oltre 36 milioni di persone stanno soffrendo la fame. Ma l’area di tribolazione si sta allargando. Per dare un quadro esaustivo si dovrebbe partire già ad est di quella regione africana, ossia dallo Yemen dove, dopo 7 anni di guerra, 19 milioni di persone (6 su 10) soffrono di grave insicurezza alimentare e a farne le spese sono stati, ad ora, soprattutto bambini in tenera età.

345 milioni di milioni di persone a rischio
Muovendosi poi verso ovest, si stanno registrando gravi fenomeni di crisi alimentari e morti per fame anche nel nord-est della Nigeria, dove si calcola che almeno 13 milioni di individui necessitino di cibo salvavita. E questo quadro riguarda solo quella fascia geografica, perché poi di fatto, stando a fonti delle agenzie delle Nazioni Unite, l’emergenza si sta registrando anche in Afghanistan: vi sarebbero quindi 345 milioni di persone, al momento e per i prossimi sei mesi, a rischio di morte per fame. Insomma un’emergenza globale senza precedenti, fra cambiamenti climatici, instabilità e guerre locali, sino addirittura a quella globale in Ucraina.

Nei Paesi del Corno d’Africa, al quinto anno consecutivo di scarsità di piogge, milioni di capi di bestiame sono stati decimati dal prosciugamento dei pascoli e dei punti d’acqua, e lo stress idrico, a cui sono sottoposti terreni e popolazioni locali, ha costretto sino ad ora oltre un milione di persone a lasciare le proprie case e a muoversi verso i confini, addirittura ad oltrepassarli, creando così flussi migratori forzati e destabilizzanti realtà nazionali contigue. Stando al Programma Alimentare Mondiale dell’Onu, il numero di persone a rischio fame è però salito da agosto e settembre e solo in Somalia già 7 milioni di individui - quasi la metà della popolazione – risultano cronicamente affamati.


Se la peggior siccità degli ultimi 40 anni ha cause naturali, come i ben noti cambiamenti climatici, la catastrofe umanitaria, che secondo alcuni osservatori durerà almeno sino a marzo 2023, ha innumerevoli concause dovute ai tecnicismi che sottostanno alle allerte umanitarie, così come all’insicurezza regionale e internazionale dovuta a guerre e terrorismo, sino ad opportunismi politici che hanno finito per dare alla fame addirittura un ruolo tattico, una sorta di arma da guerra, come già avveniva nei secoli passati con gli assedi delle città e le devastazioni delle campagne. Ma procediamo con ordine.


Le definizioni di “insicurezza alimentare” e “carestia”

L’urgenza umanitaria dovuta alla siccità del Corno d’Africa è stata causata, inizialmente, da segnali d’allarme troppo tardivi. Le ragioni sono molteplici: fra tutte spicca la difficoltà per gli organismi governativi di recuperare ed analizzare dati locali contingenti, sparsi su un vasto territorio, allo scopo di intervenire con tempestività attraverso la richiesta di aiuti agli organismi sovranazionali preposti, come le agenzie dell’Onu. Ciò è dovuto al malfunzionamento istituzionale e di controllo sociale locale, ma non solo. Le definizioni di “insicurezza alimentare” e “carestia”, da cui l’allarme internazionale e i conseguenti aiuti, dipendono da una classificazione altamente tecnica[2] dovuta a tre criteri specifici: almeno il 20% delle famiglie di una data regione deve affrontare un’estrema carenza di cibo, più del 30% dei bambini sotto i 5 anni deve essere gravemente malnutrito e, in ultimo, “debbono morire”, al giorno, almeno 2 persone su 10mila per cause legate alla fame.

Ecco cosa serve alle agenzie delle Nazioni Unite, organismi non profit internazionali e governi, per classificare il rischio di carestia e avviare gli aiuti (da 1, fase minima, a 5, grave): un metodo di calcolo che presuppone raccolta ed elaborazione di dati che può funzionare in Stati più organizzati e stabili, ma che trova ostacoli insormontabili in regioni se non in guerra (la gravità della situazione è per lo meno chiara) anche solo fortemente destabilizzate, come la Somalia, oppure poco o per nulla organizzate localmente come il Sud Sudan. Quest’ultimo sta registrando, al momento, il più alto “tasso di fame acuta” dalla sua indipendenza dal resto del Paese nel 2011, con 7,7 milioni di persone, oltre il 60%, colpito dalla carestia. Ne è derivato un aumento della violenza interna per l’accaparramento di risorse e cibo, con inevitabili ripercussioni circa la sicurezza locale, ma non solo[3].

Si perpetua poi di fatto un circolo vizioso, perché i conflitti e l’insicurezza peggiorano le condizioni di villaggi e strade, e diventa rischioso se non impossibile far giungere gli aiuti. E’ stato poi constatato che la dichiarazione di carestia nella regione del Corno d’Africa è stato l’ultimo invito all’azione quando tutto il preallarme per prevenirla, quando e se c’è stato, è passato inosservato, soprattutto perché la comunità internazionale più prossima a quelle regioni, ossia l’Europa, era distratta da altre emergenze come quelle dovute alla guerra in Ucraina.

I riflessi negativi della guerra Russia-Ucraina

Ma non si tratta infatti solo di forti shock climatici e di stagioni di piogge scarse o inesistenti: proprio il conflitto fra Kiev e Mosca, per molti paesi africani, ha significato veder rallentare, o addirittura sparire al momento, forniture di grano e fertilizzanti (la Somalia, fra i tanti, dipendeva totalmente dall’Ucraina); inoltre, l’aumento vertiginoso dei loro prezzi (saliti del 30%) ne ha reso impossibile l’ acquisto, ad esempio, per parecchi agricoltori somali fra i meno abbienti della regione. Gli aumenti sia di granaglie che del greggio hanno finito invece per incidere in maniera estremamente gravosa sull’inflazione interna del Kenya (dove 1 milione di bambini al di sotto dei 5 anni e circa 120mila donne in gravidanza e allattamento sono gravemente malnutrite) così come sui costi totali delle consegne degli aiuti umanitari internazionali, finendo per ridurli drasticamente se non addirittura per bloccarli.

La raccolta dei dati come prova di carestia in atto, al fine di allertare gli organismi umanitari internazionali, si risolve spesso, inoltre, anche come arma a doppio taglio, laddove la fame è usata come arma da guerra. La storia militare è colma di esempi al riguardo, e non mancano versioni più moderne, come (da sempre) in Yemen e (in ultimo) nel Tigray etiope (con le regioni di Afar e Amhara) dove gli stessi governanti non hanno interesse a mostrare la gravità delle condizioni dei locali “rivoltosi”, per timore di condanne internazionali o, peggio, intromissioni attraverso aiuti umanitari da parte di potenze esterne.

Oppure accade come per gli Stati Uniti del democratico Obama nella guerra contro il siriano Assad di esaltare le pessime condizioni igieniche e di malnutrizione della popolazione civile in Siria, tacendo, invece, e colpevolmente, su quelle degli houti yemeniti, solo perché costoro sono nemici dei Sauditi, alleati di Washington. Per altri osservatori, invece, l’inazione statunitense sarebbe stata indotta dalle leggi anti-terrorismo in vigore dal 2001, che impedirebbero aiuti a territori sotto controllo di attori non statali e terroristi, come in Somalia, ad esempio[4]. Sebbene sia sempre difficile dimostrare l’intenzionalità di queste omissioni-crimini, in concreto domina il tornaconto politico. Insomma, un brutale calcolo di opportunismo e dove meglio si comprende come una dichiarazione ufficiale di carestia o, peggio, la sua omissione siano, di fatto e sovente, atti politici di convenienza, mascherati da diagnosi tecnica.

"Affamare", strumento vecchio-nuovo di guerra

Ma sono in tanti ad utilizzare l’arma della fame, quella starvation as a weapon of war[5] che appare ormai in molte analisi: accade nel Tigray etiope dove un blocco di aiuti governativi, con la ripresa dei combattimenti, sta ricattando “tatticamente” con la fame quasi sei milioni di persone non in accordo con il governo centrale. In Somalia sarebbero invece gli al-Shabaab, ossia il gruppo terroristico islamista vicino ad al-Qaeda, ad utilizzare l’arma della fame sui circa 900mila abitanti delle zone da essi gestite. Sebbene possa sembrare una contraddizione, costoro, ben consapevoli del valore del controllo del territorio come forma di governo, utilizzerebbero la “fame di massa” (mass-starvation) come arma di guerra terroristica per imporsi sulla popolazione.

Al-Shabaab, in pratica, opera affinché tutto quanto viene veicolato come aiuti umanitari verso quei territori da esso controllato debba passare e venga gestito dal gruppo, al fine di rafforzare la sua immagine come efficiente e legittimo attore, statale e islamista, sempre in attesa di un riconoscimento internazionale del suo ruolo di governante. A tale scopo al-Shabaab avrebbe avviato una campagna di “sollievo dalla siccità” per i somali sotto il suo controllo, ma che solo in apparenza sarebbe andato ad alleviarli dal peso della carestia. A conti fatti, a quegli agricoltori e allevatori gestiti da al-Shabaab, non è rimasto che il dilemma di tutte le vittime di soprusi, ossia sottostare a quel volere o rischiare la fuga.
Oltre alle elevate tasse sulla vendita del bestiame (sovente più costosa del valore dell’animale stesso), sulla preparazione del terreno e sui raccolti, a costoro non rimane che accettare il volere dei terroristi di al-Shabaab o tentare, a rischio di vita e di perdita di tutti i loro averi, di rifugiarsi nei territori sotto controllo del governo somalo legittimo. Al momento, queste fughe dai territori controllati da al-Shabaab (fra l’altro i più fertili del Paese, ossia quelli lungo i fiumi Jubba e Shabelle) stanno rallentando anche quel poco di produzione agricola e di allevamento di bestiame rimasti in Somalia e già pesantemente colpiti dalla siccità e dalla carestia.
Fin qui solo un accenno di quanto sta avvenendo in quella regione africana là dove, sofferenze, fame e carestia sembrano svolgersi senza l’adeguata attenzione e consapevolezza dei media occidentali, troppo distratti da altre emergenze, più prossime come la guerra in Ucraina e le sue conseguenze sulle forniture energetiche per la stagione fredda di un’Europa incentrata solo su stessa. Eppure c’è chi è maggiormente attento circa l’emergenza alimentare africana, come il turco Erdogan che in queste ore, nell’ultimo incontro dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, ha sottolineato l’esigenza di un intervento umanitario in Africa sotto le insegne di quell’organismo per evitare la catastrofe[6]. Non è la prima volta che il leader turco si pronuncia al riguardo. Forse ci crede realmente. Ed anche se fosse un’azione di convenienza politica, per quei milioni di sofferenti la fame sarebbe forse la salvezza anche se certamente un altro capitolo di dominazione da regia esterna dagli esiti e contraccolpi già visti troppe volte in passato.

[1] Immagini, Niente da mangiare, Mogadiscio, Somalia in Internazionale n. 1477 9/15 settembre 2022 [2] https://www.ipcinfo.org/famine-facts/ [3] https://www.nigrizia.it/notizia/sud-sudan-11-anni-di-indipendenza-ma-senza-pace [4] https://www.theguardian.com/global-development/2017/apr/26/anti-terrorism-laws-have-chilling-effect-on-vital-aid-deliveries-to-somalia [5] https://www.ieee.es/Galerias/fichero/docs_analisis/2022/DIEEEA34_2022_ENG.pdf [6] https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/africa/2022/09/16/erdogan-impegnati-perche-grano-da-ucraina-vada-in-africa_13c81e0f-6536-47f8-8ade-c3c44ac2e6c2.html
69 visualizzazioni0 commenti
bottom of page