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Venaria-Torino: partenza regale del Giro d'Italia, amarcord del tempo che fu con Piero Chiara


di Marco Travaglini


La 107° edizione del Giro d’Italia inizierà sabato 4 maggio dal Piemonte con la prima tappa che arriverà a Torino. La corsa Rosa prenderà il via da Venaria Reale per raggiungere la prima capitale d’Italia dopo 140 chilometri, con i Gran Premi della montagna a Superga e sul Colle della Maddalena. Al di là dell’evento sportivo in sé il ciclismo in Italia non è uno sport per pochi: secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio sullo sport system italiano di Banca Ifis, nel nostro paese sono 10.7 milioni i maggiorenni appassionati, pari al 21% della popolazione, e quasi 4 milioni i praticanti.

L’Italia è leader in Europa nella produzione di biciclette con il 21% di quota di mercato, seguita da Germania e Portogallo rispettivamente con il 15% e 12%. Quel che è certo è che, nel tempo, le cose sono cambiate e delle grandi imprese del passato con campioni, vittorie sofferte, emozionanti salite e volate mozzafiato con tutte le incognite del caso è rimasto poco. Un grande campione come Francesco Moser in una intervista riconosceva come il ciclismo di oggi fosse enormemente mutato rispetto ai suoi anni: “Oggi il ciclismo è molto più tecnologico e i corridori devono prepararsi a puntino, osservare tutte le regole, per cui hanno il dietologo, il nutrizionista, lo psicologo. Nelle gare noi decidevamo quando si attaccava o meno, invece adesso con gli auricolari i corridori sono costantemente collegati col direttore sportivo e devono stare agli ordini, non possono fare come gli pare, anche se i grandi campioni di tanto in tanto decidono di fare da soli. Le gare importanti sono trasmesse in tv, c’è la telecamera che li segue ovunque e così vedono tutto”. Un tempo le cose erano ben diverse".


"Lo Zanzi, il Binda e altre storie"

“Il ciclismo è la sagra degli umili, se non dei poveri, l’unica possibilità di trionfo per i giovani di paese”. Così veniva definito il questo sport in uno dei sei racconti di Piero Chiara, raccolti nel libro Lo Zanzi, il Binda e altre storie su due ruote. Scritti sul ciclismo 1969-1985, pubblicato da Nomos Edizioni. Un libro agile come lo stile di un grimpeur che riporta ad altri tempi. Introdotto da Alberto Brambilla ( “Inseguendo Binda sulla strada di Zenna” ), il volume offre una breve ma intensa miscellanea dei lavori sul ciclismo dello scrittore luinese che visse in prima persona la singolare esperienza di commentatore televisivo al Giro d’Italia del 1968. La scelta è caduta sui testi più interessanti e curiosi, alcuni dei quali dedicati alla nascita del ciclismo e al fascino senza tempo del Giro d’Italia, la corsa su due ruote che – al seguito della “maglia rosa”  – coinvolge e appassiona da sempre larghe masse di tifosi di questo sport duro e faticoso. Con l’arcinota ironia, Chiara – tra l’altro – si chiedeva come “sia potuta sfuggire l’invenzione della bicicletta a Leonardo da Vinci”, cosa che si può spiegare soltanto “col carattere aristocratico dell’ingegno leonardesco, inteso alla costruzione delle grandi macchine… l’idea di un mezzo di spostamento veloce per lavoratori, contadini, fattorini e altra minuta gente, non allettò il suo cervello”

Non lo si spiega altrimenti, visto che per il noto veicolo azionato dalla forza muscolare delle gambe si dovette attendere il 1817, anno in cui un inventore tedesco di Karlsruhe, Karl Drais, costruì il prototipo della sua laufmachine (macchina da corsa), la Draisina (come la ribattezzò la stampa dell’epoca, in onore del suo inventore) dalla quale derivò l’attuale bicicletta. Nelle storie di Chiara compaiono i grandi campioni del passato, da Alfredo Binda a Felice Gimondi, e anche personaggi minori ma non meno privi di fascino, come il gregario varesino Augusto Zanzi (detto Stravaca per la scomposta posizione in sella) che partecipò al Giro nei primi anni ’30.

E’ un ciclismo epico, quello descritto, nazionalpopolare quanto il calcio al punto da spartire col pallone tifosi e titoli, chiacchiere da bar e prime pagine. Un ciclismo dove gli sforzi e le pedalate su strade polverose e impervie finivano sulle cronache per le vittorie e i drammi, non  certo per il doping. Sul tema, in un passaggio d’intervista ad Alfredo Binda, cinque volte campione d’Italia e tre del mondo, emerge la natura nostrana del doping utilizzato dal ciclista di Cittiglio: le uova sode e sgusciate, “da poterle mangiare in due bocconi. “Era – diceva Binda – la droga di quei tempi”. Ma non facevano male al fegato? gli domandarono. Rispose, lapidario: “La fatica mi volatizzava le uova una dopo l’altra, prima ancora che arrivassero al fegato”. E anche alla fine della carriera, quando arriva per i campioni e per i gregari l’ora d’appendere la bicicletta al chiodo, Piero Chiara si pose l’interessante quesito di come finisse “la gloria”.

Infatti, che fine fa un campione dopo essersi ritirato dalle corse professionistiche? “Pensai allo Zanzi che si era fatto il negozio di biciclette e motorini, a Binda che aveva allevato conigli d’Angora, a Bartali che aveva dato il nome prima a una marca di lamette da barba e poi a una qualità di Chianti”. Figlio di quella terra lombarda che va da Laveno a Luino, nota come sponda magra del lago Maggiore, contrapposta alla sponda grassa piemontese delle ville e dei turisti, Piero Chiara si era sempre mostrato osservatore attento e appassionato alle pieghe e ai risvolti della società italiana. E quindi anche del ciclismo come fenomeno popolare e di massa. Un libro interessante, quindi.

Scorrendone le pagine, si rivive lo spirito d’un tempo dove diventavano protagonisti anche i gregari, quelli ignoti, come scrisse Dino Buzzati, “il cui nome mai è stato scritto dai bambini col gesso bianco, né per abbasso né per via, sui muri della periferia”. Un ciclismo d’antan, con tutte le miserie e l’umanità di uno sport dove la regola d’una volta era “acqua in bocca e pedalare”. E che un poco ci manca per poterci ancora entusiasmare e far palpitare il cuore come quando la voce alla radio di Mario Ferretti informò che “un uomo solo è al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi”, celebrando le gesta di quel ragazzo piemontese “secco come un osso di prosciutto”.


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