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"Gigi Riva, il guerriero acheo della mia infanzia"

di Massimo Filipponi


Per tutta la stagione calcistica chiedevo a mio padre di portarmi allo stadio. Le sue resistenze venivano meno con il passare dei turni di campionato e all’ultima giornata della Serie A 1973-74, finalmente, capitolò. Pazienza e tenacia vennero premiate perché, in quell’ultima partita in casa, la mia squadra del cuore sfidava il Cagliari di Gigi Riva. Avevo solo otto anni, ma avevo compreso perfettamente che la formula corretta era proprio quella: “il Cagliari di Gigi Riva”. Come se le due realtà non avessero titolo a un’esistenza autonoma. Non si poteva parlare della città e della squadra cagliaritana senza fare un riferimento (fosse anche mentale) a Gigi Riva. E viceversa.

In quel caldo pomeriggio di metà maggio del ’74 del Cagliari campione d’Italia era rimasto ben poco. Gigi Riva invece era rimasto Gigi Riva. Lo accompagnava un’aura di mito glorioso tanto che i tifosi di casa erano combattuti tra ammirazione e timore, sentimenti solo all’apparenza contrapposti. A dire il vero, Riva giocò spesso lontano dai riflettori (anzi inseguendone l’ombra proiettata sul campo) ma, ogni volta che il pallone transitava vicino al suo fisico da guerriero acheo, era palpabile la preoccupazione diffusa sugli spalti che potesse da un momento all’altro replicare i gesti che l’avevano proiettato nell’Olimpo. Scatti fulminei, rovesciate acrobatiche, tiri potenti e colpi di testa in tuffo. Su tutti, però, i tre tocchi ravvicinati di sinistro - interno, esterno e collo - prodromi del gol del 3-2 all’Azteca di Città del Messico, conditi con un passo di danza scambiata dai più per finta di corpo ai danni del tedesco-milanista Karl-Heinz Schnellinger, in quell’Italia-Germania 4-3 assurto a madre di tutte le partite di calcio.

Un mese dopo Riva, ai Mondiali di Germania, giocò la sua ultima partita con la Nazionale. Fu un amaro pareggio con l’Argentina. Assistette poi dalla panchina alla sconfitta 2-1 con la Polonia che sancì l’inattesa eliminazione. L’Italia di "zio" Uccio Valcareggi, pronosticata tra le favorite per il titolo, in tre gare aveva smarrito tutte le certezze e per l’operazione-rinascita, affidata al dottor Fulvio Bernardini, ex grande centromediano della Lazio, Inter e Roma negli anni Trenta del Novecento ed allenatore campione d'Italia con la Fiorentina (1956-57) e il Bologna (1963-64), decise di fare a meno di Gigi Riva al quale la gloria aveva finito per giocare un brutto tiro: renderlo nel giudizio dei tecnici e nell’immaginario popolare molto più logoro dei suoi 29 anni e 7 mesi. Si interrompeva così un feeling unico con la maglia azzurra che aspetta ancora di essere indossata da un cannoniere più prolifico.

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