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Da De Rossi a Tudor, storie parallele sulle panchine romane


di Massimo Filipponi


Fabio Capello una volta dichiarò: “Il problema del calcio nella Capitale è che qui tutti sono convinti che l’universo si esaurisca all’interno del grande raccordo anulare”. Da uomo di mondo, nato sulle pietre goriziane e partito alla conquista di Milano e Torino, fino alla Spagna e all’Inghilterra (e con minori fortune anche in Russia e Cina), Capello - classe 1946, giocatore di Spal, Roma, Juventus, Milan, che alla guida della Roma vinse uno scudetto sfiorandone altri due - descrisse in poche parole la patologia ‘calcistica’ che affligge la Città Eterna: vivere malati di provincialismo al centro dell’impero. Nemmeno la chiamata, quasi contemporanea di due guru della panchina, come Josè Mourinho (sponda giallorossa) e Maurizio Sarri (versante Lazio), entrambi proiettati verso aurei destini, ha modificato il peccato originale: le sorti di un club, nel bene e nel male, influenzano quelle dell’altro.


L'eclissi di Josè Mourinho

A maggio del 2021, la presidenza americana della Roma annunciò Mourinho nuovo tecnico, e nemmeno un mese dopo Lotito rispose chiamando Sarri. Anche l’uscita di scena di entrambi gli allenatori è stata una specie di  prova ciclistica di inseguimento: Mou viene sollevato dall’incarico a metà gennaio, Mau lascia all’inizio di marzo. Il legame indissolubile dei destini tra cugini si è rivelato ancora una volta superiore a tutto. Più forte di metodi di gestione del gruppo, schemi tattici, preparazioni atletiche e carismi incrociati.

Un ruolo non secondario nello sviluppo della recente storia romana lo ha recitato Daniele De Rossi, "cuore giallorosso", che in due mesi ha spodestato il portoghese riuscendo addirittura a mostrarlo per quel che era e che nessuno riusciva a vedere: un re nudo. Il folle amore con cui metà della città aveva circondato Mourinho nascondeva le responsabilità del tecnico per le quattro sconfitte patite in un mese, a cavallo del nuovo anno. Lui continuava a ripetere che le colpe andavano cercate altrove: nella pochezza della rosa (determinata dalle ristrettezze economiche del club), nell’avversione della classe arbitrale nei suoi confronti, nella maledizione degli infortuni a ripetizione del suo (unico?) giocatore di livello.

All’età di 40 anni, De Rossi è rientrato in punta di piedi nell’ambiente che per 18 stagioni è stato il suo e con pazienza e arguzia ha smontato pezzo per pezzo le fondamenta mouriniane favorendo dinamiche virtuose per ricostruire certezze smarrite. Sostituendo il ‘dominio dell’Io’ con la ‘cultura del Noi ’ il giovane tecnico ha fatto leva sul senso di appartenenza e sull’amor proprio. Da subito il messaggio è stato chiaro: “Questa è una squadra competitiva perché composta da giocatori forti”. Il recupero dell’autostima collettiva e qualche aggiustamento tattico hanno ridato slancio a un gruppo che nella precedente gestione, anche quando vinceva, sembrava votato più al cinismo e all’attesa che ispirato a una sana tendenza al bel gioco.

C’è di più. Da quando De Rossi siede sulla panchina della Roma, nella sala stampa di Trigoria, durante gli incontri con i giornalisti, è tornata a riecheggiare una frase autocritica bandita da tempo: “E’ colpa mia”. DDR l’ha pronunciata assumendosi pubblicamente la responsabilità per un modulo troppo ardito o per una sostituzione non felice. E lo fa sorridendo, senza evocare spettri o combine di palazzo. Soprattutto senza criticare mai le altre squadre del campionato (e i loro giocatori) e, nell’unica occasione in cui ha citato la Lazio, l’ho ha fatto per ‘sostenerla’ nel suo cammino internazionale, in nome di un valore ancora più alto: il ranking europeo dell'Italia. Un cambio di rotta concreto rispetto al passato.


Il crollo laziale

Proprio mentre tra i romanisti la fine della belligeranza perpetua produceva un clima interno disteso ridando vitalità e disponibilità al bel gioco (nonché risultati positivi sul campo) , l’altra parte del Tevere veniva investita da un’escalation di negatività. Quasi come se, una volta defenestrato il nemico perfetto (Mourinho è tanto amato dai suoi fan quanto odiato da tutti gli altri), fosse venuto meno il senso stesso della battaglia. Il ritorno al sorriso di una parte rende l’umore dei biancocelesti, scottati dall’uscita di scena dalla Champions League e da una striscia di cinque sconfitte in campionato, ancora più tetro. Inevitabile intervenire. Il resto è storia recente: Igor Tudor si è da poco insediato al timone della Lazio e non ci resta che aspettare il primo sabato di aprile per assistere al derby delle nuove panchine.

E, proprio per descrivere l’atmosfera che si respira prima della stracittadina romana, non si può non citare una battuta di Diego Bianchi, tifoso giallorosso doc, che in piena pandemia (quindi con la Serie A ferma) ebbe a dire: “A me questo campionato sospeso non dispiace, da tre mesi la Roma non perde e da tre mesi le altre non vincono”.

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