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Siamo tutti dragoniani, ma a tempo...


di Emanuele Davide Ruffino


Ogni periodo storico ha bisogno dei suoi neologismi e così l’esperienza del Governo Draghi pone la necessità di individuare una fase storica, forse irripetibile, che dovrà essere analizzate al di là della bagarre elettorale che si sta abbattendo sull’Italia.

Per analogia fonetica si può richiamare il termine “draconiano” derivato da Dracone, l’estensore del primo codice scritto ad Atene nel 621 a. C. passato alla storia per la sua severità, ma che oggi trova pochi seguaci, ma Draghi pur avendo rallentato la corsa del debito pubblico, non l’ha certamente fermata (anzi su certe spese ha chiuso entrambi gli occhi).<br><br> Il termine Dragoniano non trova ancora posto nel nostro dizionario se non come aggettivo per identificare un atteggiamento riconducibile ai gloriosi Dragoni del XV secolo, noti per il gran fumo che emettevano le loro carabine tali da far ricordare un drago arrabbiato...


In tempi moderni, ossia oggi, il termine Dragoniano viene utilizzato per indicare un atteggiamento para salvifico (il richiamo costante è alla famosa locuzione Whatever it takes, "a ogni costo", pronunciata da Draghi per salvare l’Euro), come stimolo alla classe politica di una maggiore responsabilità (in una democrazia dovrebbe competere alle rappresentanze partitiche il compito di governare).


Dragonismo politico


Il termine potrebbe anche adattarsi all’instancabile volontà di lavorare, da parte dei “nonni al servizio delle istituzioni”, nell’interesse dello Stato nonostante gli impedimenti che possono venire a crearsi. Il rischio però è quello che superata la fase contingente, il lemma rimarrà come esempio accademico nelle discussioni dei politologi, sempre impegnati a spiegare perché le cose non funzionano, ma poco rivolti al <i>problem solving

La realtà attuale porta a riflettere sulla suddivisione dei ruoli: ai tecnici si richiede di proporre soluzioni e risolvere le incongruenze in essere, mentre al mondo politico compete definire la gerarchizzazione degli interventi e la quantificazione dei medesimi.


Di incongruenze, il nostro modo d’interpretare la realtà ne offre parecchie: un lavoratore su quattro guadagna meno del reddito di cittadinanza; per il reddito di cittadinanza si spendono più di 10 miliardi e poi non ci sono 400 mila euro per attuare le proposte avanzate dall’INPS per le pensioni; in Italia, tassazione, burocrazia e deficit sono tra i più elevati al mondo, ma con una bassissima produttività (in alcun casi inferiore al costo delle risorse impiegate).<br><br> Non è con la Pubblica Amministrazione più vecchia d’Europa che si può immaginare un rapido recupero della produttività, così come un ulteriore inasprimento delle imposte, non concordato con quella degli altri Paesi, più che aumentare gli introiti, genera una fuga di capitale e gli esempi potrebbero continuare.


Chiaramente ci sono sbilanciamenti che minano gli equilibri e rallentano ogni possibilità di crescita. Se è vero che non vi è immediata sostituibilità tra posti di lavoro e reddito di cittadinanza oppure tra chi va in pensione e le nuove assunzioni, trattasi di variabili strettamente interconnesse cui occorre la miglior arte politica per poterle gestire.<br><br> Il primo grande economista italiano, Giuseppe Toniolo, ammoniva che non si può essere un buon economista se si è solo un economista, anticipando come la necessità di associare più competenze e sensibilità. Se si vuole perseguire il benessere comune risulta essenziale per interpretare la società, senza cadere nel pressapochismo, ma conservando forte capacità decisionale (vero antidoto all’autarchismo).


Equazioni da brividi


Evitare lo sfruttamento, in un mondo dove milioni di bambini non godono delle più elementari tutele dovrebbe essere un obiettivo che trascende i confini dei singoli Stati e dei singoli partiti, per diventare un principio irrinunciabile. Salvo poi ignorare come vengono prodotti alcuni beni proposti sui nostri mercati a prezzi irrisori al cui “fascino” non si sottraggono né le imprese, né i singoli individui.


La Commissione europea, guidata da Ursula von der Leyen, già da tempo (ottobre 2020) ha proposto il salario minimo legale, ipotesi che dopo l’accordo, trovato lo scorso 7 giugno fra Parlamento europeo e Stati nazionali, l’emanazione di una direttiva sul salario minimo sembra possibile. Provvedimento quanto mai utile per l’Italia: infatti, il nostro Paese è l'unico in Europa dove i salari reali sono diminuiti dagli anni ’90, ma nonostante ciò le sue industrie sono in difficoltà e tendono a delocalizzarsi.


L’equazione che si pone nelle nostre società è quello di associare le politiche di sviluppo a quelle del welfare con il vincolo della sostenibilità del sistema stesso, dettato dalla produttività che si riesce a raggiungere. Un quadrilatero in cui si muovono pressoché infinite variabili che possono entrare in gioco, dove compito dell’economia è quello d’individuare quelle maggiormente significative e lasciare alla politica governarle in modo razionale.<br><br> L’equilibrio si ottiene garantendo un reddito di sussistenza che però non scoraggi la ricerca del lavoro tutelato da un salario minimo dignitoso e che fornisca introiti sufficienti per permettere di versare sufficienti contributi pensionistici. Come costruire questo intreccio non è di facile risoluzione, ma la politica, oltre che sollevare bandierine per evidenziare la propria presenza, deve poi creare regole per armonizzare le istanze in gioco.


Si pretendono redditi alti e politiche di welfare, ma solo per noi stessi e questo genera squilibri intollerabili sia nel mercato interno che esterno. Il salario minimo, ammesso che abbia senso parlarne in periodo di alta inflazione, comporta un innalzamento dei costi che nell’attuale contesto può definirsi irrisorio, anche perché le grandi associazioni industriali praticano già contratti maggiormente rispettosi dei parametri individuati.


Nessuno, nel mondo occidentale di cui l’Italia fa parte (almeno fino ad oggi) può ignorare la tutela di alcuni valori riconducibili alla dignità umana: il vero problema è garantire le condizioni affinché questi si realizzino. Ai partiti che chiedono di governare, il compito d’impostare le risposte. La realtà ci porta invece a pensare che qualche agenzia pubblicitaria abbia informato che a noi Italiani piace il concetto: "bisogna anteporre gli interessi del Paese", perché lo dicono tutti. Poi elencano i problemi che ci attanagliano. Grazie, ma quali sono i nostri problemi, lo sappiamo già.


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