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Pubblico, privato o funzionale: che cosa conviene alla sanità?


di Emanuele Davide Ruffino e Germana Zollesi

Probabilmente soggiogati da una forma di analfabetismo economico-manageriale, si continua a discutere su dogmi ideologici e sul quantum, anziché sul come si utilizzano le risorse. Il dibattito pubblico-privato ha caratterizzato per decenni il confronto politico, ma oggi appare un po’ anacronistico (tardo novecentesco) se si tiene conto che, esaminando i bilanci dei grandi ospedali italiani, sommando il costo dei farmaci, della tecnologia e dei servizi acquistati da enti che pagano i loro dipendenti ben al di sotto dei 9 Euro, potremmo già considerarli a dominanza privatistica.


Cos’è pubblico e cos’è privato

Ci manca il genio di Giorgio Gaber per formalizzare correttamente il problema (col suo canticchiare “che cos’è la destra, che cos’è la sinistra”), ma tra acquistare farmaci da multinazionali straniere (e l’OMS ci segnala un sovra-consumo pericoloso per la salute) o attrezzature high technology su un mercato oligopolistico a livello mondiale e richiede a struttura profit e no profit che operano a livello locale servizi indispensabili alla popolazione, modulabili in base alle necessità e continuamente controllabili sotto un profilo qualitativo, è difficile collocarsi su una posizione manichea.

Quello che conta è assicurare il soddisfacimento dei bisogni effettivamente necessari ed appropriati presenti in una determinata collettività e non perdersi in dispute di carattere accademico che portano a considerare pubblico il medico assunto a tempo indeterminato in un ospedale del Servizio Sanitario e privato il “medico gettonista” che operano fianco a fianco, figure indistinguibili dal paziente che entra in un pronto soccorso o in un reparto ospedaliero. E non è che della differenza possa importargli un gran che: quello che interessa, considerato che si parla di salute, è la qualità del servizio reso.

Se ci si confronta con il resto del mondo, esclusa Inghilterra e Svezia che presentano un sistema simile al nostro (ma in Inghilterra, Oftalmologia e Odontoiatria sono escluse dal NHS-National Health Service) tutti gli altri sistemi presentano una maggior presenza del privato e del no profit. Ciò non significa necessariamente che funzionino meglio, anzi, tornando a citare l’OMS, i risultati in termini di stato di salute di tutta la popolazione italiana, sono stati decisamente buoni (semmai non si capiscono le critiche continuamente avanzate al sistema quando eravamo sul podio a livello mondiale come qualità della sanità).

Oggi però la situazione sta cambiando profondamente e il sistema appare sempre più difficile da sostenere per diverse ragioni. La percentuale di immigrati nel nostro Paese, sia intraregionali che internazionali, si sta avvicinando a quella degli altri Paesi industrializzati, ma la nostra Costituzione art 32, ci ricorda che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”: Principio rappresentante un alto livello di civiltà, ma che richiede un crescente impegno finanziario difficile da sostenere quando le popolazioni presentano un alto tasso di mobilità per cui viene a mancare una perfetta corrispondenza tra chi è chiamato a sopportare i costi e chi ne fruisce dei benefici (e il nostro è già uno dei sistemi con aliquote fiscali più elevate).

Le ricerche scientifiche nel settore propongono soluzioni sempre più efficaci (e anche quando non lo sono, la nostra disperata volontà di curarsi pretende che vengano comunque somministrate), ma sempre più costose che possono mettere in crisi la sostenibilità del sistema. Neanche la scarsità di risorse, come nel settore dei trapianti, riduce la corsa alla ricerca di soluzioni, come testimonia l’ignobile ricorso a soluzioni presenti nel Terzo mondo.


Cos’è sostenibile

La ricerca di soluzioni che permettano di realizzare il massimo livello di copertura sanitaria in rapporto alle risorse disponibili (e l’Italia presenta un rapporto tra spesa sanitaria e PIL, inferiore agli altri Paesi) richiama poca attenzione. Questa rimane tutta concentrata su bisogni immediati (liste d’attesa), più che su una ricerca di razionalità e funzionalità nel lungo periodo.

Con un PIL più in difficoltà di crescita (causa congiuntura internazionale, ma anche un'infinità di rigidità difficili da rimuovere) risulterà inoltre complicato adeguare gli stipendi del personale sanitario al livello di altri Paese che continueranno a richiedere nostri professionisti (notoriamente ben preparati) e che a causa di programmazioni poco lungimiranti bloccano l’ingresso alla professione o la rendono particolarmente poco apprezzabile (infermieri e medici di Pronto soccorso: entrambi penalizzati in termini di carriera e di soddisfazioni economiche). A ciò occorre aggiungere che, passata la fase in cui la società riconosceva loro l’appellativo di eroi, sono tornati ad essere malmenati, causa l’esasperazione di quella cultura per cui tutto è dovuto (e se non viene dato subito ciò che si vuole, si ha diritto di malmenare il malcapitato medico, infermiere o impiegato amministrativo che ci si trova di fronte).

In questo scenario s’impone una riflessione su cosa è sostenibile nel lungo periodo e strutturare le risorse in modo da garantire un’assistenza adeguata, impegnandole laddove queste restituiscono reale utilità a chi più necessita (indipendentemente dall’etichetta pubblico, privato, convenzionato, no profit).



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