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Palestina: rinnovamento Anp con il "copyright" americano

di Stefano Marengo


Nei giorni scorsi il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha dichiarato di valutare positivamente il tentativo di "riforma e rivitalizzazione" dell'Autorità Nazionale Palestinese (ANP), che per gli USA costituisce un passo preliminare per unificare sotto un unico governo la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. A favorire questa presa di posizione c'è stato l'annuncio delle dimissioni del premier palestinese Mohammad Shtayyeh, circostanza che potrebbe sfociare in un sostanziale rimpasto di governo, magari anche con l'inclusione - ipotizzata da alcuni, ma forse improbabile - di membri di Hamas nel nuovo esecutivo.

In realtà l'abbandono di Shtayyeh potrebbe non essere una notizia così significativa. Il primo ministro, in carica dal 2019, già in passato, ritenendo terminato il proprio compito, aveva presentato per ben due volte le proprie dimissioni, ma Abu Mazen le aveva respinte. D'altra parte occorre osservare come, all'interno dell'ANP, la vera carica apicale sia quella di presidente, ricoperta proprio da Abu Mazen, e non quella di premier. 

Alla luce di ciò, insomma, non si capisce bene in che cosa consisterebbe nel concreto la riforma dell'ANP. Blinken, in fondo, è stato estremamente (volontariamente?) vago. L'impressione che se ne ricava è che gli Stati Uniti, interrogandosi sul dopoguerra a Gaza, siano disponibili ad assecondare alcuni cambiamenti nella composizione e struttura dell'ANP per ripristinare lo status quo ante, ossia garantire ai palestinesi una qualche forma minima di autogoverno a livello amministrativo, confidando in questo modo di poter tornare a congelare, come è stato negli ultimi due decenni, la questione politica di fondo, vale a dire la rivendicazione del diritto alla sovranità e all'autodeterminazione del popolo palestinese.

Se questa interpretazione è corretta, bisogna registrare che la tentazione "gattopardesca" di Washington si scontra con le mire del governo israeliano, ben deciso a sfruttare la congiuntura attuale per assumere il pieno controllo della Striscia di Gaza e intensificare espropri e colonizzazioni in Cisgiordania.

A chi interessa l'opinione dei palestinesi?

A essere davvero sintomatico in queste vicende è che nessuno dei protagonisti - non gli Usa, non Israele e nemmeno l'ANP - si chiede, se non incidentalmente, che cosa ne pensino i palestinesi. Le scelte che li riguardano sembrano ancora una volta destinate a essere calate dall'alto, ed è questa incuranza del consenso popolare ad essere la spia più visibile del fatto che, di nuovo, si rischia di imboccare un vicolo cieco al fondo del quale non possono non esserci che effetti pericolosi, come la storia insegna. Se si tiene conto dell'opinione dei palestinesi, ci si rende conto che l'ANP non può essere soltanto riformata, ma va smantellata e ricostituita su basi politiche nuove e allontanando l'attuale classe dirigente che fa capo ad Abu Mazen. 

Per quanto concerne le basi politiche, va ricordato che l'ANP è un'eredità degli accordi di Oslo datati 1993, il cui prevedibile fallimento ha condotto alla situazione catastrofica in cui si trova oggi la Palestina. Si possono al riguardo menzionare due aspetti. Il primo è che quegli accordi non giunsero mai a riconoscere il diritto dei palestinesi ad un proprio stato, ma accordarono dei limitati poteri amministrativi e di sicurezza all'ANP su piccoli scampoli di territorio. Il caso della Cisgiordania è emblematico: essa fu divisa in un'Area A, corrispondente ai principali centri urbani e a meno del 20% del territorio, sotto la responsabilità amministrativa e di sicurezza dell'ANP, mentre le rimanenti Aree B e C, ossia oltre l'80% del territorio (si tratta delle zone in cui sorgono le colonie illegali israeliane), rimasero sotto lo strettissimo controllo militare dell'esercito di Tel Aviv.

In altre parole, l'ANP non solo dispone di un potere molto scarso, ma lo esercita su appena un quinto della Cisgiordania. In secondo luogo, come se non bastasse, a tutto ciò va aggiunto che l'Autorità Palestinese non gode di fatto di alcuna autonomia finanziaria. Ancora nel caso della Cisgiordania, sono le autorità israeliane a riscuotere le tasse, cioè a tenere i cordoni della borsa, per poi successivamente (e spesso discrezionalmente) trasferirle all'ANP, con l'ovvia conseguenza che quest'ultima non ha alcun potere contrattuale nei confronti di Israele e anzi viene ormai considerata dalla popolazione palestinese come un organismo collaborazionista delle autorità di occupazione israeliane. 


Abu Mazen: consenso ai minimi storici

Ma non è tutto. Infatti, alle questioni di architettura istituzionale-diplomatica si affiancano grandi problemi politici. Nel 2007, ad esempio, fu proprio l'ANP di Abu Mazen, d'accordo con USA e Israele, a tentare un "golpe" contro l'ala politica di Hamas che, l'anno precedente, aveva legittimamente vinto le elezioni per il Consiglio Nazionale Palestinese (elezioni, peraltro, giudicate regolari da tutti gli osservatori internazionali). Risale ad allora la divaricazione dei percorsi della Striscia di Gaza, che fu tenuta dall'ala militare di Hamas, e della Cisgiordania, dove a prevalere furono gli uomini di Abu Mazen. E risale ad allora l'inizio della perdita di fiducia nell'ANP da parte della popolazione palestinese nel suo complesso, una perdita di fiducia che ha raggiunto il culmine proprio in questi ultimi anni: non è un caso che Abu Mazen non convochi le elezioni politiche da ormai 18 anni e che, secondo un rilevamento recente, quasi il 90% dei palestinesi vorrebbero le sue dimissioni. 

Volendo tirare le somme, parlare oggi di una "riforma e rivitalizzazione" dell'ANP suona come un'inquietante presa in giro nei confronti dei palestinesi. Se si volesse tenere conto della loro opinione, bisognerebbe definitivamente archiviare tutte le opprimenti conseguenze degli accordi di Oslo e congedare la classe dirigente che le ha assecondate per tre decenni. Non serve una riforma, una rivitalizzazione o un rilancio, ma una strategia politica di cambiamento profondo e radicale capace sia di contrastare con forza le mire espansioniste e colonizzatrici di Israele, sia di andare oltre lo status quo ante che gli USA sembrano voler ristabilire. Bisogna però prendere tristemente atto che è poco probabile che a Washington, per non dire a Tel Aviv (nella foto Netanyahu), interessi qualcosa del sentire e dei vissuti del popolo palestinese. 

Vista in questa luce, l'attenzione di questi giorni per l'ANP rischia di essere fuorviante e di non fornire, ancora una volta, nessuna risposta alla questione palestinese. In questo senso, la strategia più sensata che i palestinesi possono seguire non sta nella rianimazione del caput mortuum dell'ANP, ma nella fondazione di una nuova Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), un'organizzazione aperta a tutte le sigle della resistenza, da quelle laiche a quelle di ispirazione religiosa, e capace di porsi come nuova soggettività politica e di lotta. Una soggettività collettiva davvero rappresentativa del sentire del popolo palestinese e capace di agire per conseguire i propri obiettivi di emancipazione nazionale e liberazione dal dominio coloniale israeliano. 



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