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Mediterraneo e Sahel. Quando l’embargo alla Libia è un’illusione tutta europea

Aggiornamento: 13 apr 2023

di Germana Tappero Merlo

Notizie dal fronte libico parlano di oltre un centinaio di violazioni della tregua dal 19 gennaio, data della conferenza internazionale di Berlino che, con esagerato ed infondato ottimismo, era stata definita un piccolo passo in avanti verso la pace in quella terra. Il proseguimento dei combattimenti in Libia, da entrambe le parti e con raid aerei – di recente a Waskah, ad est di Misurata e a Tripoli, con 71 mercenari turco-siriani uccisi – accoda invece Berlino agli altri fallimentari consessi, da Abu Dabi, Palermo sino a Parigi. Previsione facile, addirittura banale, che si sta avverando a dimostrazione, ancora una volta, che l’odierna politica internazionale si esplica sempre più, di fatto, su innumerevoli livelli, per lo più discordanti, sovente in aperto conflitto e raramente convergenti verso interessi comuni e condivisi. Al più alto livello vi sono, appunto, i grandi eventi come Berlino per la Libia, oramai solo sterili vetrine che soddisfano il desiderio di protagonismo dei differenti partecipanti, quando oramai crisi e conflitti internazionali necessitano di soluzioni partecipate e approvate ma che, per avere successo, debbono partire da tutt’altro livello, decisamente più basso. L’unico approccio, infatti, nell’opinione di alcuni osservatori e che si vuole realmente risolutivo di situazioni complesse come quella libica, è quello bottom-up che parte da un livello decisamente più basso, dalle esigenze del popolo, per dare soluzioni ai livelli più alti della politica. È un approccio rivoluzionario rispetto alla consuetudine odierna, innovativo, realmente democratico, seppur ancora illusorio ed irrealizzabile per la mancanza di conoscenza, di preparazione e di adeguati strumenti per la partecipazione alla politica di gran parte delle popolazioni ora coinvolte in numerosi crisi interne e conflitti, dalla Siria, Iraq, Yemen e appunto Libia. Tuttavia, non sono solo quelle genti quanto innumerevoli altri soggetti esterni con i loro interessi economici e di proiezione di influenza, sia essa politica o religiosa, per il dominio di terre o la gestione di riserve strategiche, che si inseriscono in quei fragili contesti e deviano consapevolmente e impunemente dalle regole, dettando tempi, imponendo alterne alleanze e, di conseguenza, condizionando l’andamento di crisi e la degenerazione delle guerre. Cosa non sta funzionando, quindi, di fatto, ora in Libia? Di sicuro, il punto centrale dell’accordo di Berlino, ossia quell’embargo di armi e uomini che, di fatto, continuano a fluire indisturbati e copiosamente, sia verso la Tripolitania di al-Sarraj che a sostegno delle forze rivali della Cirenaica di Haftar. Se il primo gode di forniture turche, fra droni, mercenari jihadisti siriani (si parla di un totale di 6000 unità in arrivo), personale per l’intelligence, artiglieria e sistemi di difesa aerea, Haftar continua ad ottenere supporto di mezzi, in particolare droni ed aerei, dagli Emirati Arabi Uniti (suoi sponsor oltre a Egitto e Arabia Saudita) e combattenti da società private, soprattutto russe, a cui si affiancano unità africane di varia e nebulosa provenienza. E poco importa che, secondo fonti di stampa araba, il gen. Haftar non goda più del pieno sostegno dell’egiziano al-Sisi, scontento della sua mediocre performance militare (giudizio ampiamente condiviso anche da stretti collaboratori dello stesso generale) e per questo deciso a sostituirlo. Oppure che Putin, di fronte alle sue intemperanze, abbia stretto un accordo per spartirsi la torta libica con il turco Erdogan, – rimanendo però avversari in Siria, sia ben chiaro – decidendo di non concedere più ad Haftar ufficialmente (ma non ufficiosamente) il supporto promesso a suo tempo. È tutto parte del tormentato risiko internazionale che investe l’intero Mediterraneo e non solo. È anche ciò che si desume da informazioni in prevalenza di stampa araba, perché la guerra in Libia è anche guerra di informazione intra-araba. E come potrebbe essere altrimenti quando gli Emirati (al-Arabiya) si contendono con Qatar (al-Jazeera) l’influenza politica e religiosa su quella terra, investendo enormi somme in uomini e mezzi? Prendiamone atto, considerando però anche l’impreparazione del mondo occidentale a fare dei distinguo in scenari complessi, traendo così conclusioni irrazionali, e proponendone soluzioni incoerenti. Fonti della UN Support Mission in Libya (UNSMIL) lamentano, infatti, che proprio soggetti presenti a Berlino stanno trasferendo ora risorse militari strategiche, non escludendo la stessa Francia, che da anni, sostiene clandestinamente Haftar per il suo ruolo di ‘stabilizzatore e anti-terrorista’ nella regione nord africana. Insomma, Haftar garanzia anche per gli interessi, non solo economici (petrolio e acqua) ma anche di sicurezza ‘interni’ della Francia e che, per questo, si sente legittimata a sostenerlo militarmente. Una situazione che va ben al di là dell’immaginazione, pensando ai sorrisi d’assenso stereotipati, elargiti da Macron a Berlino per quell’accordo che ha sottoscritto sull’embargo. Un blocco che pare non piaccia nemmeno al Primo ministro austriaco Kurz che, in queste ore, ha chiesto all’Europa di non rinnovare il dispositivo della missione militare Sophia nelle acque del Mediterraneo, il cui scopo sarebbe proprio quello di contenere il traffico di combattenti e di armi verso la Libia. A fronte di queste posizioni discordanti, fra guerra di informazione, dichiarazioni di buona volontà ufficiali, doppi ruoli su differenti scenari e azioni criminali clandestine, ecco apparire analisi di prestigiose società di previsione di crisi che, nell’elencare i conflitti da tenere sotto osservazione per tutto il 2020, non citano affatto la Libia, ma una generica ‘Regione del Sahel’. Non si tratta di errore o volontaria omissione, come nemmeno di sottovalutazione del conflitto libico. Al contrario. Come per un aggancio naturale, ciò che sta avvenendo in queste ore in Libia è considerato da costoro – e come dargli torto? – uno sfondamento del conflitto libico nell’instabilità armata già presente in tutta l’area del Sahel ed oltre, ossia in quella ancora più a sud, lungo tutta la fascia sub-sahariana. La sicurezza di questa regione ne è stata decisamente contagiata, in un crescendo che non trova interruzioni da una decina di anni, tanto che i livelli di violenza in Niger, Nigeria, Mali, Ciad, Camerun, Burkina Faso nel 2019 sono raddoppiati rispetto a quelli già elevati dell’anno precedente. La causa e l’effetto di questa aumentata violenza sono i conflitti locali e intra-statali, fra milizie armate, terroristi jihadisti affiliati o simpatizzanti di al-Qaeda o del sedicente Stato Islamico, con buona dose di traffici illeciti e violenza imposti dai rapporti di costoro con la criminalità organizzata sovranazionale, favoriti da malgoverno, corruzione e rivalità tribali, e sovente alimentati ad hoc dall’esterno, guarda caso gli stessi soggetti mediorientali che ora si confrontano sui fronti opposti della Libia. Come ci si può illudere che l’embargo di armi nelle acque del Mediterraneo possa porre fine alla guerra in Libia quando la grande instabilità di quell’ampia fascia che è il Sahel, che va dall’oceano Atlantico al Mar Rosso, è l’alternativa già ampiamente collaudata e sfruttata da anni per innumerevoli rifornimenti di armi e combattenti in altri conflitti, dal Sudan, alla Somalia e, attraverso il sud dell’Egitto e dal Sinai, addirittura sino a Gaza? E si ritorna al Mediterraneo che l’Europa discute se e come controllarlo, contorcendosi su se stessa per la sua limitata ed egoistica visione, perdendo così tempo prezioso. È negare una verità che non piace, espressa nelle parole di Fernand Braudel che allargava i confini dell’Europa alle sabbie del Sahara, passando da quel Mediterraneo “che non è un mare, ma un susseguirsi di mari. Non è una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre (…) un crocevia antichissimo. Da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia: bestie da soma, vetture, merci, navi, idee, religioni, modi di vivere”. Era un modo, il suo, di osservare la contemporaneità, e quindi anche la storia, non più come primato della temporalità ma sostituendolo con una maggior sensibilità per la geografia, per gli spazi appunto, e per tutte le realtà, con i loro problemi, là presenti. Una visione globale di un uomo di cultura del secolo scorso, totalmente assente, a quanto pare, nell’uomo potente della globalizzazione del nuovo millennio.


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