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La Libia e la trappola di Tucidide

Aggiornamento: 13 apr 2023

di Germana Tappero Merlo

In attesa della conferenza di domenica 19 a Berlino, sotto l’egida dell’Unione Europea e dell’Onu, voci e speranze sulle sorti della Libia si rincorrono da giorni, in un movimentato carosello diplomatico, con presenze strategiche e assenze tattiche, a cui fanno da cornice dichiarazioni, smentite e addirittura fake news, fra propaganda e inganno, come si conviene con l’information warfare propria delle guerre ibride, a cui appartiene a pieno titolo l’ormai quasi decennale conflitto libico. Il fermento attorno all’evento di Berlino è stato per ora garantito; meno la presenza di tutte le parti coinvolte; escluso, di fatto, un accordo duraturo. E per una semplice ragione: il dossier Libia non è soltanto complesso per le sue dinamiche interne e internazionali, ma perché la sua riuscita poggia interamente su elementi politici, economici e di sicurezza che sono di gran lunga ignorati in particolare da questa parte del Mediterraneo. Lo dimostra la proposta che verrà illustrata nel corso della conferenza di una fascia demilitarizzata fra la Cirenaica di Haftar (che gode del forte sostegno militare di Egitto, Emirati, Arabia Saudita, un po’ più limitato della Russia e a parole addirittura della Francia) e la Tripolitania del governo di al-Saraj, riconosciuto dalla comunità internazionale, supportato verbalmente dagli Stati Uniti, Italia, Algeria e Regno Unito, finanziariamente dal Qatar ma, da ultimo, militarmente dalla Turchia. La zona demilitarizzata, già più volte proposta in passato, andrebbe dalla costa ovest di Tripoli fino a est di Misurata. Di novità vi sarebbero l’obbligo del congelamento dell’intervento militare turco, con l’invio però di militari russi per la supervisione dell’accordo, e la presenza di una forza di interposizione Onu non armata. Una proposta carica di giuste aspettative ma priva di buon senso laddove questa fascia, senza una reale deterrenza armata, verrebbe a inserirsi in un contesto altamente rischioso e imprevedibile perché i presupposti per la pace sono lontanissimi dall’essere stati raggiunti. Ecco che anche la proposta fortemente sostenuta dall’Italia di una forza di peacekeeping scivola per inconsistenza e, spiace affermarlo, per ignoranza. Non solo perché non esiste una pace accordata da entrambi i contendenti da mantenere (condizione obbligatoria per la Carta dell’Onu), ma perché da tempo il peacekeeping richiede un approccio totalmente inverso a quanto avveniva sino alla fine del secolo scorso. Allora valeva l’ approccio top-down (pace imposta alle parti da accordi dall’alto, top, alle parti contendenti sul campo, down) ma ora, per essere efficace, per via dell’evoluzione della dottrina conformemente a quanto accade a livello internazionale, la pace deve essere bottom-up, ossia partire dal basso (bottom) e nel caso sarebbe la volontà popolare libica espressa democraticamente che si impone sull’alto (up), ossia sul governo legittimo. Inutile soffermarsi sull’inconsistenza della proposta, mancando totalmente questi presupposti ma presentandosene altri non del tutto compresi dai mediatori occidentali. Perché, di fatto, la guerra in tutta la Libia, anche nella mai citata regione del Fezzan, si sta combattendo per importanti interessi economici (gas, petrolio, ma non solo), per aggressive proiezioni di potenza anche e soprattutto di soggetti fuori area (Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Russia e persino Francia) e per l’ampliamento o il contenimento di influenze religiose (la Fratellanza Musulmana della Turchia e il salafismo di Egitto e Arabia Saudita). Tutto ciò non attraverso interventi politici condivisi dalla comunità internazionale ma filtrato e veicolato dalla personalizzazione da parte di tutti i più potenti attori coinvolti, dal gen. Haftar, Erdogan, Putin, al-Sisi. Una personalizzazione che pare ormai essere una tendenza dominante la politica del XXI secolo, dall’improbabile inversione di tendenza a breve. Tutti costoro, nessuno escluso, inseguono nello scenario libico esclusivamente propri interessi di rafforzamento o prolungamento del proprio potere personale. E lo dichiarano apertamente; decisamente meno lo fanno gli altri soggetti coinvolti, come i membri dell’Unione Europea o gli Stati Uniti, ma non per questo meno disinteressati a gestire il patrimonio energetico libico o, nel caso statunitense, a contrastare l’influenza cinese nel continente africano. Infatti, secondo alcune analisti e seppur non se ne parli apertamente, sia gli Stati Uniti che la Cina, in apparenza neutrali al caos libico, sembrano invece molto interessati a porre il proprio controllo su quella parte di territorio africano. In particolare, si ipotizza un interesse statunitense sul gasdotto Greenstream – progetto italiano risalente al 2004 – ma non per il gas, quanto per le due condotte che lo affiancano in tutto il suo tragitto, relative alla trasmissione dati per la telefonia mobile e internet, già operative dal centro del continente africano sino all’Europa e da questa verso l’Asia. Insomma, a smuovere i contendenti nella guerra, spesso all’antica, fra milizie armate e mercenari, fra jihadismo e terrorismo, pare ci sia anche il controllo del più veloce e moderno dei sistemi di comunicazione, ossia il 5G. Per la sua implementazione in Africa, Pechino avrebbe già speso oltre 70miliardi di dollari. Un buon affare cinese che, come sempre, l’Occidente dalla vista corta e, per quanto riguarda l’UE, senza una politica internazionale ed una energetica pienamente condivise, scopre in ritardo e rincorre con affanno. Questi sono tempi in cui la politica di proiezione di potenza, come già sosteneva Machiavelli, ha il sopravvento sulle giaculatorie, espresse nell’insistente richiamo dell’Occidente, responsabile diretto di quel conflitto, al diritto internazionale dopo anni di barbarie, sperando che quelle suppliche rimpiazzino la mancanza di politiche unitarie e concrete per la sua difesa e la sua sicurezza. Non da meno, per i nuovi soggetti delle relazioni internazionali del nuovo secolo, vale quella che il politologo statunitense Graham Tillett Allison Jr. ha definito la ‘trappola di Tucidide’ per descrivere la tendenza di una potenza dominante a ricorrere alla forza per contenere una potenza emergente. E di tali potenze e prepotenze pare essere decisamente affollato il moderno disordine mondiale che si riunirà a Berlino.



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