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Il ricordo di Rocco Chinnici a quarant'anni dal suo sacrificio

Aggiornamento: 29 lug 2023

di Vice


In una fase politica che dà l'impressione di mettere in seconda linea l'impegno contro le mafie, il giorno della memoria è dedicato a Rocco Chinnici, classe 1925, Capo dell'ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo che Cosa Nostra dilaniò letteralmente con un'auto bomba il 29 luglio di 40 anni, alle 8 del mattino. Un ricordo che può e deve aiutare gli italiani a rifiutare l'idea che, in assenza di o titoli eclatanti e cubitali di arresti eccellenti o di guerre tra cosche con cadaveri nelle strade, le mafie siano scomparse dai radar della nostra vita quotidiana, quasi diventate un residuo del passato e non forme attive di criminalità organizzata potenti e prepotenti in ogni angolo del pianeta, interne a società rispettabili con i loro prestanomi e il controllo di corposi pacchetti azionari, grazie al riciclaggio di denaro illecito.

Affievolimento e sensibilità che non si avvertono però dal basso, dove il contrasto dei cittadini onesti, i più numerosi, si salda puntuale al ricordo di coloro che hanno sacrificato le proprie vite per combattere i criminali mafiosi, ma dall'idea di disuso che si fa del codice penale quando incrocia i reati di mafia, magari anche in buonafede. Idea non meno pericolosa se sostenuta all'orizzonte da un legittimo dibattito giuridico e giurisprudenziale che rischia però di favorire il ritorno a una mentalità di tolleranza e compiacenza che nutre di "rispettabilità" il potere mafioso e che rimane il suo fine ultimo per subordinare la società civile alle sue regole.

L'attentato a Rocco Chinnici avvenne in via Giuseppe Pipitone Federico all'altezza del numero 59, dove abitava, e causò la morte degli uomini della scorta, il maresciallo dell'Arma dei Carabinieri Mario Trapassi e l'appuntato Salvatore Bartolotta, e del portiere del condominio Stefano Li Sacchi. Unico sopravvissuto, l'autista Giovanni Paparcuri. Secondo le sentenze, ad azionare il telecomando che produsse l'esplosione fu Antonino Madonia, boss della famiglia dei Resuttana, condannato all'ergastolo insieme con il vertice dei corleonesi, da Totò Riina a Bernardo Provenzano, da cui era considerato un fedelissimo.

Rocco Chinnici si trovò ad operare in un ambiente di veleni che inquinava e cercava di manipolare tutto, persino i rapporti interpersonali con i colleghi più a lui vicini, come dimostrò la scoperta dei suoi diari, da cui prese forma l'iniziativa del Csm di trasferimento e successive dimissioni di alcuni magistrati in odore di collusione con la mafia. Intuitivo, attento ai comportamenti sociali, Chinnici era stato tra i primi magistrati a cogliere gli effetti devastanti del traffico di droga sui giovani e a comprendere la modifica che quell'attività criminale aveva e avrebbe avuto sugli equilibri all'interno della cupola mafiosa e sulle sempre maggiori sue capacità di influenzare e circuire la società civile.

Ha scritto Piero Melati nel suo libro "La notte della civetta" (ed. Zolfo): "Falcone guardava la mafia verso l’alto: le banche svizzere, i riciclaggi, gli equilibri interni alle “famiglie”, i legami tra boss e grande potere. Seguiva gli assegni. Chinnici era ossessionato dalla strada. Non gli sfuggiva mai il collegamento tra quei livelli più sofisticati studiati da Falcone e quel che si consumava nel giardino di casa della città. Ma proprio per questo a colpirlo non era tanto l’albero avvelenato, ma i suoi frutti mortali: le fontanelle, le siringhe, i ragazzi che si bucavano".

E come ha ricordato oggi Rino Giacalone su Articolo 21 "Le indagini, i processi, per la strage in cui morì il giudice Rocco Chinnici, ci hanno lasciato scritto che furono i cugini Salvo di Salemi, Nino e Ignazio, i potenti esattori siciliani, a volere quella strage. Con le sue indagini il giudice Rocco Chinnici era ad un passo da loro, esponenti di rilievo di quella che oggi verrebbe indicata l’area grigia di Cosa nostra, dove mafiosi,. piccioli, soldi, e politica, erano tutti un’unica cosa. Lo sentiamo bene ancora quel “botto” perché sebbene siano trascorsi 40 anni e abbiamo anche fatto il salto di un secolo, il clima, l’agire mafioso, le collusioni, sono sopravvissute. Anni terribili. Quei magistrati dell’ufficio istruzione di Palermo, con Chinnici c’erano Falcone, Borsellino, Di Lello, Guarnotta, erano guardati malamente dentro e fuori quel Tribunale. Chinnici annotò nei suoi diari il rimprovero ricevuto dal presidente della Corte di Appello, Giovanni Pizzillo, per le sue indagini che 'stavano rovinando l’economia di Palermo'. Chinnici indagava sui traffici di droga e sui soldi che la mafia guadagnava e riciclava, facendo investimenti per miliardi di lire. E con i soldi Cosa nostra pilotava il consenso della società a proprio favore".[1]

Chinnici lo si ricorda, giustamente, come l'inventore del "pool antimafia" a Palermo. Fu una soluzione che il capo dell'Ufficio Istruzione di Palermo aveva preso ad imitazione del pool antiterrorismo che l'Ufficio istruzione del Tribunale di Torino, all'epoca diretto dal dottor Mario Carassi, aveva istituito negli anni Settanta per fronteggiare l'eversione terroristica. Fu un'eredità preziosa lasciata da Chinnici che si rivelò vincente: una autentica arma letale che concorse a modificare anche i rapporti di forza con la mafia.

La medaglia d'oro al valore civile che gli è stata assegnata reca la seguente motivazione: "Magistrato tenacemente impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata, consapevole dei rischi cui andava incontro quale Capo dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, dedicava ogni sua energia a respingere con rigorosa coerenza la sfida sempre più minacciosa lanciata dalle organizzazioni mafiose allo Stato democratico. Barbaramente trucidato In un proditorio agguato, tesogli con efferata ferocia, sacrificava la sua vita al servizio della giustizia, dello Stato e delle istituzioni".


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