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Il fine vita non è uno scontro ideologico

Aggiornamento: 4 gen 2023

di Luca Rolandi*

Come spesso accade in questi tempi veloci e superficiali il tema del fine vita è già sparito dai radar del dibattito pubblico, con gravi conseguenze per ciò di cui si discute e si deciderà, un tema etico sul quale non è possibile tirarsi indietro e rimandare ogni decisione politica. Labile come sempre il confine tra vita e morte, tra dignità ed esistenza, tra un pensiero laico e un pensiero religioso, che naturalmente dovranno trovare una sintesi. Ciò che oggi manca nel confronto vero, sincero e profondo è l’interrogarsi sulla vita e sulla morte, in modo non astratto ma concreto. Era per paradosso più semplice, anche se inconsapevole nella società rurale e arcaica. In fondo la domanda ultima è quando si muore, chi muore? La vita non si riduce al solo significato biologico, alle reazioni biochimiche che si studiano in un laboratorio, ma anche al significato biografico, costituito dall’incontro con se stesso, con gli altri, con il mondo e, per il credente, con Dio. Morire con dignità significa per la persona malata nella fase terminale della malattia il diritto ad una assistenza rispettosa che risponda ai bisogni assistenziali della sua dimensione biofisica, ma anche a quelli delle sue dimensioni biografiche, come quelle psicologiche e spirituali. Un mese dopo la decisione della Corte Costituzionale che dichiarava non punibile “chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”, siamo in attesa oltre che del dispositivo della sentenza anche del confronto nelle aule parlamentari. Soprattutto la Corte ha chiesto al Parlamento di intervenire rapidamente perché è cosciente di aver creato una crepa in una diga che potrebbe esplodere e cancellare con il tempo le condizioni restrittive imposte secondo l’antico principio de iure condendo. Tuttavia fino a quando i parlamentari e le forze politiche non si spingeranno alla fonte in cui nasce il tema, siamo destinati a essere paralizzati dai detriti portati alla foce come le divisioni, le fazioni ideologiche e gli interessi particolari, come bene sottolinea padre Francesco Occhetta, gesuita e acuto scrittore della Civiltà Cattolica. “La patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che reputa intollerabili ma capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. È stata prevista un’ulteriore garanzia: la norma non è auto-applicabile, è un dispositivo, sarà il Servizio Sanitario Nazionale ad accertare le quattro condizioni citate. Si è evitato che l’eutanasia rientrasse nel gesto di cura e che cliniche private, come quelle svizzere, possano costruire un grande business intorno al fine vita. Partendo da queste considerazioni va messo in atto un confronto non ideologico e di mera contrapposizione, una dicotomia antica e antistorica tra credenti e non credenti che scaverebbe un fossato nella coscienza collettiva. In nome della vita, di ogni esistenza che è unica e irripetibile, andrebbero considerati la volontà del singolo che si trova ogni volta in una situazione diversa e unica e il rapporto tra l’io e il noi, per non perdere definitivamente quel senso di comunità e fraternità che ha permesso all’umanità di crescere oltre lo stretto individualismo. L’interrogativo spontaneo e di per sé preoccupato è sintetizzato nella domanda sul perché oggi siamo in assenza di un vero dibattito parlamentare sul tema e anche un dibattito dentro le comunità, l’opinione pubblica i gruppi, laici e religiosi. Ciò si svolse con lacerazioni anche profonde negli anni Settanta e Ottanta per le leggi e poi i referendum su divorzio e aborto, temi etici, temi diversi, ma non troppo lontani da questa grande frontiera dell’esistenza. Testamento biologico, fine vite, suicidio assistito, eutanasia sono parole che spaventano, angosciano e nella cultura occidentale, che si pretende superiore, sono allontanate oppure normate come se la legge potesse spiegare tutto di ciò che sta dentro il mistero profondo e incredibile della vita, di ogni vita. Le forze di Governo attuali tendono ad appoggiare la cultura del suicidio assistito per arrivare all’eutanasia? È una domanda a cui non si riesce a dare una risposta perché in pochi si espongono con chiarezza. Ma la questione di fondo è qual è il valore primo? Rafforzare una relazione o esaltare l’autonomia dell’individuo? La vita come efficienza assoluta, lo scarto umano, oppure di converso la dignità del morire di lasciarsi andare verso un altrove, che per i credenti è la nuova vita e per il pensiero laico e ateo, la fine del percorso umano. Per la medicina tecnologica la morte rimane un incidente e una battaglia da vincere, anzi ci spinge a riformulare alcune delle domande radicali dell’esistenza: quando la vita passa la soglia della morte? La morte è il confine della vita oppure è la fine della vita?

A questi interrogativi da una parte la cultura (tecnica) risponde allungando il processo del morire regolato e programmato dalla ricerca scientifica dall’altra la medicina si trova costretta a chiedere al paziente se vuole morire, rifiutando poco a poco le macchine che lo tengono in vita. Una cultura democratica che si dice liberale e basa il fondamento della libertà sulla responsabilità verso l’altro è chiamata a fondare il “fine vita”, senza evitare il tentativo “moderno” di esorcizzare un’inquietudine che da sempre abita il cuore dell’uomo e a interrogarsi pubblicamente sulle ragioni del dolore e della morte, non sfuggire dalla memoria mortis. Dunque incalzare il Parlamento, imporre con una pressione virtuosa un dibattito per garantire la cura data nel morire data dalla relazione e dall’aiuto concreto alle famiglie. La società civile, se esiste ancora, e penso che esista, non può tirarsi indietro in questo confronto: non solo con i post e i tweet che svaniscono ma con momenti di conoscenza e autocoscienza. Per i credenti c’è poi una responsabilità in più: testimoniare una concreta vicinanza d’amore per rendere eterna la vita del morente. Il presupposto antropologico è il significato più ampio di salute che dal latino salus richiama la salvezza. Basterebbe rileggere la storia anche solo del nostro Paese e vedere come esponenti cattolici e democratici della Prima Repubblica avessero un senso della laicità e delle scelte democratiche e libere per tutti, ben superiore a molti paladini del nulla e della superficialità che oggi sono chiamati a prendere decisioni senza demandarle solo ad altri, medici e giudici, che già vivono e si prendono responsabilità grandi sulla vita di tutti. * Giornalista e ricercatore di Storia sociale e religiosa.


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