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Gigi Riva, lacrime di addio per Rombo di Tuono

di Michele Ruggiero


Gigi Riva, il sinistro di Dio, è morto. Aveva 79 anni. Era nato a Leggiuno, in provincia di Varese, ma era diventato uomo e calciatore in Sardegna, a Cagliari. Di lui si sono riempite migliaia di pagine in quantità inversamente proporzionale alla sua discrezione e alla sua riservatezza, valori accolti, compresi, rispettati accettati senza se e senza ma, perché lui era un monumento del nostro calcio. Fa persino impressione scrivere che non c'è più. Ed è doloroso, soprattutto per quanti hanno creduto che gli fosse dovuta l'immortalità per quei meravigliosi momenti di sport veri e autentici che ci ha regalato. Uomo con la schiena diritta fuori e dentro il campo. Gigi Riva è stato un regalo per il calcio e al calcio ha dato serietà in misura decisamente maggiore di quanto l'ambiente fosse in grado di restituirgli.

Ottava giornata del campionato 1966-67, 13 novembre 1966, Stadio Comunale di Torino. Gigi Riva era nel sottopassaggio della curva Filadelfia, quella della curva bianconera, che portava all'uscita sul campo. Si saliva ancora i gradini e davanti si spalancava la Curva Maratona. I giovani calciatori del Nagc della Juventus, chi in maglia bianconera, chi in maglia verde, incolonnati sotto lo sguardo paterno del "maestro" Mario Pedrale e un po' intimoriti per quel debutto d'avanspettacolo, gli passarono accanto emozionati. Lo si vide intabarrato in un impermeabile scuro. La faccia era scavata, butterata, eredità dell'acne giovanile. Era una bella giornata, di quelle con cui novembre ama stupire, con il sole che investiva una parte della curva opposta, dove avevano preso posto i tifosi cagliaritani, e i gradoni dei distinti centrali che fronteggiavano la tribuna.

Il manto erboso era perfetto, dava l'impressione di alleggerire la corsa e ai calciatori in erba sembrava di poterci volare, volare anche nel proprio futuro, sognando qualunque volo acrobatico, proprio come quelli preferiti da Gigi Riva. Ma quella domenica, non ci furono numeri di acrobazia e neppure ne fece il fenomeno del Cagliari, non ancora "Rombo di tuono", ma piuttosto nervoso, soprattutto nel finale di partita.

In campo, agli "ordini del signor Lo Bello da Siracusa", scese la solita Juventus "operaia" allenata da HH2, al secolo Heriberto Herrera, "sergente di ferro" comparso dal Paraguay per ridare alla Juventus il tricolore dopo sei anni di astinenza. La "zebra" risolse la partita con il centroavanti De Paoli all'82. Una rete che aveva interrotto l'imbattibilità del portiere Reginato a 712 minuti. Juve combattiva, senza grandi scintillii, si scrisse. Una regola per quella squadra sparagnina quanto astuta, abile nel rubare all'ultima e decisiva giornata sul terreno del Mantova di quel campionato uno scudetto che l'Inter di Helenio Herrera credeva suo fin dall'inizio, come riteneva sua la finale di Coppa dei Campioni, perduta contro il Celtic Glasgow. Fine del ciclo neroazzurro.

Nella stagione 1966-67 il Cagliari campione d'Italia del "filosofo" Manlio Scopigno era ancora in incubazione, ma si vedeva già la stoffa che l'avrebbe portato al titolo nel 1970. Non era fantascienza. Sempre a patto, si auguravano i tifosi dell'isola, che Gigi Riva, oggetto del desiderio dei club del continente, in primis la Juventus che con il suo presidente, l'ex pilota di caccia Vittore Catella, lo inseguiva da tempo. E nessuno si nascondeva che privo di Riva, il Cagliari rischiava di cadere in picchiata alla borsa valori del calcio. Soprattutto non faceva paura.

L'unico a non averlo capito era stato Edmondo Fabbri, il Commissario unico della nazionale azzurra che ai Mondiali d'Inghilterra di quello stesso anno l'aveva portato in "gita premio" insieme con un altro ragazzo del '44, Mario Bertini, toscano di Prato, gran cursore dai polmoni a doppio incasso e dai piedi buoni. Così in tribuna, mentre Giacomo Bulgarelli sacrificava un ginocchio, lasciando praticamente in dieci e priva del suo regista la nazionale che Riva e Bertini avrebbero visto sprofondare nella vergogna in quel di Middlesbrough, in quella dannata serata della nostra Caporetto calcistica contro la Corea del Nord, capace di atterrarci con un rete di un odontotecnico, Pak Doo Ik.

Giubilato e squalificato (sanzione orribile che mai più si sarebbe ripetuta) dalla Federcalcio Edmondo Fabbri, sulla panchina azzurra si sedette Uccio Valcareggi, che si guardò bene dal domandarsi se Gigi Riva fosse pronto per la scena internazionale. L'Italia intera lo comprese nel pomeriggio del 18 novembre 1967 davanti ai teleschermi per Svizzera-Italia, qualificazioni dei Campionati europei che l'Italia avrebbe vinto l'anno seguente nella seconda partita di finale contro la Jugoslavia, dopo aver pareggiato in maniera rocambolesca e con l'aiuto dell'arbitro la prima. Quel sabato, Riva s'inventò una rovesciata in acrobazia che lasciò pietrificata difesa e portiere elvetico e si procurò anche il calcio di rigore, trasformato, con cui la nazionale lascò indenne lo stadio di Berna.

Da allora, Gigi Riva, diventato "Rombo di Tuono" per il cantore Gianni Brera, avrebbe continuato a segnare, e tanto: 35 goal in 42 partite, record ancora invalicabile con la maglia azzurra. Nessuno meglio di lui. E nessuno più di lui ad avere dato due gravi infortuni alla Nazionale, nel '67 e nel '70. Nessuno più di lui a resistere alle lusinghe del denaro e a continuare a credere nel valore delle amicizie e degli affetti.






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