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Foibe e Shoah: il peso (scarso) delle parole

Aggiornamento: 23 apr 2023

di Gianni Oliva

Sono sicuro che nessuno dei giovani che ieri si sono azzuffati al Campus Einaudi per le foibe è in grado di spiegare che cosa siano, a quale periodo si riferiscano, perché siano accadute: al massimo, possono snocciolare qualche slogan trito, “crimini dei boia comunisti” versus “legittima vendetta contro i fascisti”. Più in là non si va. Prima considerazione. Per avere un’identità, i gruppi hanno bisogno di un retroterra ideologico che dia consapevolezza e di un nemico riconosciuto che garantisca contrapposizione. Nel momento in cui la politica è assolutamente incapace di progettare il futuro, i contorni tra “destra” e “sinistra” sfumano e il retroterra come consapevolezza viene meno: così resta la contrapposizione, cercata riesumando il vecchio gioco delle “bandierine sul passato”. Oggi le foibe, perché siamo nel giorno del ricordo; ieri le infamie delle scritte antiebraiche, perché era il giorno della memoria; domani (non è difficile prevederlo) le polemiche antiresistenziali, perché sarà il 25 aprile. Il fatto è che la shoah, le foibe, la liberazione, il sangue dei vinti sono momenti della storia, ognuno con le sue dinamiche e le sue ragioni, e come tali vanni inquadrati e studiati. Il modo migliore per non capire il passato è demonizzarlo o esaltarlo: è questa la strada per le strumentalizzazioni o le rimozioni. Seconda considerazione. I “socialconfusi” del Fuan o di Askatasuma sono minoranze intemperanti, come ogni generazione ha sempre prodotto. Nelle polemiche di questi giorni ci sono però state persone presunte “responsabili” che hanno contribuito significativamente ad alimentare le tensioni. Il politico che il 10 febbraio posta la foto di Tito ricordandone i meriti nella lotta antinazista fa il paio con quello che anziché parlare di foibe e di profughi giuliano-dalmati parla dei silenzi di chi le ha negate. La giornata del ricordo è stata istituita con un voto parlamentare quasi unanime per stimolare una memoria condivisa e non a caso il percorso è stato avviato nel 1996 da un pubblico dibattito tra Gianfranco Fini e Luciano Violante. I tanti negazionisti di ieri e quelli (per fortuna, pochi) di oggi si sconfiggono con la conoscenza, non con la polemica. Quando la politica guarda all’indietro significa solo che non è capace di guardare avanti. Terza considerazione. Oggi ci sono troppe parole in libertà: le parole vanno ponderate, misurate, dominate. Quando sono le parole a dominare, il linguaggio non serve ad argomentare, ma ad asserire: e questa è la demagogia, malattia virale della democrazia perché si insinua nelle smagliature della coscienza collettiva. Quarta considerazione, least but non last: quante colpe ha, in tutto questo, la nostra scuola? La storia è materia poco in onore e, soprattutto, è poco in onore la storia contemporanea. Qualsiasi studente ha sentito parlare della battaglia di Canne, o di Carlo Magno, ma “rema” se gli si chiede di foibe istriane, o di via Fani, o di “guerra fredda”. Il presente è figlio del passato prossimo, non del passato remoto: ignorare gli ultimi 70/80 anni significa ignorare come e perché siamo diventati i cittadini di oggi. Ha senso una scelta didattica del genere? Mi piacerebbe che i leader nazionali, anziché esecrare i negazionisti di ogni latitudine, proponessero nuovi programmi e nuove attenzioni. Così il 27 gennaio, il 10 febbraio o il 25 aprile si avrebbero giovani consapevoli di ciò che si ricorda, anziché teppisti che si azzuffano in nome di una memoria che non conoscono.


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