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Emergenza Covid-19 e emergenza migrazioni: analogie e differenze

Aggiornamento: 21 apr 2023

di Davide Rigallo

Al netto delle innegabili differenze e delle peculiarità, paragonare l’emergenza sanitaria del Covid-19 e quella migratoria del 2015-2016 ha senso laddove si guardi agli aspetti gestionali delle due crisi e agli effetti che questi hanno lasciato sul campo. In ambedue i casi, i fenomeni sono stati affrontati medianti approcci “emergenziali” che si sono protratti nel tempo, ritenendo di avere a che fare con eventi imprevisti e poco controllabili. Per il contenimento del contagio, si è scelto infatti di applicare il lockdown, ossia il “confinamento” dei cittadini, dando corso a forti limitazioni negli spostamenti e nei contatti tra le persone, anche mediante provvedimenti sanzionatori e l’impiego delle forze dell’ordine. E mentre si è osservata la difficoltà dei sistemi sanitari regionali e nazionali a garantire cure e profilassi efficaci, la scelta di molti governi è stata quella di imporre un sostanziale blocco delle attività sociali ed economiche dei cittadini, responsabilizzati nei comportamenti come non mai rispetto al contenimento dell’epidemia. Questo blocco della mobilità richiama in qualche modo il modus operandi adottato per rispondere al forte incremento dei flussi migratori dai Paesi terzi verso l’Unione Europea del biennio 2015-2016. Anche in quel caso, infatti, gli Stati europei hanno agito con un approccio “emergenziale” tutto teso a frenare gli ingressi delle persone. Ne sono stati strumenti il ripristino e i rafforzamenti dei controlli alle frontiere (sia interne tra Paesi Ue, che esterne con Paesi terzi), nonché l’adozione di più restrittive politiche dei visti, nella convinzione che le migrazioni possano essere limitate creando impedimenti, ostacoli, difficoltà alla circolazione dei migranti stessi. Una strategia che non ha agito sulle “cause profonde” delle migrazioni (come spesso si dichiara invece di voler fare), né si è preoccupata di rafforzare “strutturalmente” i sistemi di accoglienze e integrazione nei paesi ospitanti (soluzione che consentirebbe di rispondere in maniera sicuramente più efficace agli impatti migratori, prendendo atto della loro ineludibilità). Tanto nella gestione della crisi sanitaria in corso come quella migratoria di due anni or sono, a risultare condizionata è stata, sostanzialmente, la mobilità delle persone, unitamente alle attività ad esse connesse (da quelle economiche a quelle più estesamente sociali, a quelle più semplicemente motorie). Ancora: come nella crisi dei migranti, anche nella gestione dell’epidemia Covid-19 sembra essere in subordine, o addirittura mancante, una visione capace di affrontare strutturalmente e preventivamente il fenomeno. Non si comprende infatti ancora se e come i sistemi sanitari nazionali saranno rafforzati, se il diritto alla cura (fondamentale caposaldo nel quadro dei diritti fondamentali) sarà efficacemente garantito, quanto sarà investito nel settore della ricerca per prevenire le pandemie, ecc. L’impressione è che, in mancanza di una strategia di medio-lungo periodo che affronterebbe i fenomeni con strumenti congruenti (le epidemie con strumenti sanitari, le migrazioni con dispositivi sociali), si preferisca trasferire tutto sul piano dell’ordine pubblico, dove le “soluzioni” sono meno mediate, meno complesse e, in certa misura, più facili da adottare per gli organi decisori. Si tratta però di una facilità di corto raggio e pericolosa, principalmente per due motivi. In primo luogo, perché si rapporta a fenomeni tutt’altro che “facili” e “semplici” da governare (e la complessità va innanzitutto riconosciuta per essere gestita). Quindi, perché sembra volere avere a che fare più con “corpi” (quelli dei migranti come quelli dei cittadini messi in quarantena), che con “persone”. Le quali, piaccia o no, possiedono una complessità psicologica, relazionale, politica che va tenuta in debita considerazione sempre e comunque in uno Stato democratico.

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