Camaldoli, un codice per l’Italia libera
di Luca Rolandi
Gli anniversari sono importanti per fare memoria e ricercare, secondo una fondata storiografia critica, cosa è avvenuto nel passato. Questo è il compito dello storico in tutti i campi del passato. Certo il Codice di Camaldoli, che codice non fu, bensì un programma di intenti e impegno di quello che avrebbe potuto essere l’Italia post bellica dopo la sperata sconfitta del nazifascismo. Un programma appunto di intellettuali cattolici giovani e coraggiosi alcuni già inseriti nel sistema economico e culturale, ma che dal fascismo erano stati emarginati. Sottotraccia però e prima della lotta resistenziale avevano preparato, attraverso l’impegno culturale, meno controllabile da un regime in difficoltà e sempre più sbandato e succube dell’alleato nazista, il dopo. Una cultura politica quella cattolica, così come le altre socialista, comunista, liberale e azionista, era stata sostenuta sottotraccia prima e poi in maniera palese da Pio XI e poi Pio XII, e vivificata dalla visione di mons. Montini e mons. Bernareggi, ma aveva nei suoi laici cattolici, Sergio Paronetto, Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni, Paolo Emilio Taviani e poi ancora Guido Gonella, Angela Gotelli, Giorgio La Pira, Aldo Moro e altri ancora i riferimenti di una passione per l’Italia nuova, libera e democratica che riprendeva la lezione sturziana e si univa alle idee ricostruttive di Alcide De Gasperi e la riflessione dei cattolici sociali e comunisti, così come quelli neo guelfi.
L’impegno dei cattolici in politica ieri e oggi
Nella temperie della guerra e come gruppo di minoranza, in una Italia però ancora cattolica di cultura e tradizione, i giovani fucini e laureati contribuirono, partendo da Camaldoli ha riscrivere la storia. Nel suo messaggio al convegno di studi svoltosi a Camaldoli nel fine settimana per celebrare appunto quello storico appuntamento il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha nobilitato l’incontro con la sua presenza, nel messaggio inviato prima dell’assise ha ripercorso il quadro storico che hanno portato alla redazione del documento: “Quando un regime dittatoriale, come quello fascista, giunge al suo disfacimento, a provocarlo non sono tanto le sconfitte militari, quanto la perdita definitiva di ogni fiducia da parte della popolazione, che misura sulla propria vita il divario tra la realtà e le dichiarazioni trionfalistiche. Si apriva, in quei giorni, una transizione, a colmare la quale la tradizionale dirigenza monarchica palesa tutta la sua pochezza, dopo il colpevole tradimento delle libertà garantite dallo Statuto Albertino. In quel luglio 1943, nel momento in cui il suolo della Patria viene invaso dalle truppe ancora nemiche, mentre il Terzo Reich si trasforma rapidamente da alleato in potenza occupante, entrano in gioco le forze sane della nazione, oppresse nel Ventennio della dittatura. La lunga vigilia coltivata da coloro che non si riconoscevano nel regime trova sbocco, anche intellettuale, nella preparazione del ‘dopo’, del momento in cui l’Italia sarebbe nuovamente risorta alla libertà, con la successiva scelta dell’ordinamento repubblicano".
A distanza di ottant’anni il documento presenta parti superate, concetti ancora molto validi sul tema dei diritti, il lavoro, l’economia, l’ordinamento politico, i corpi intermedi, ma soprattutto un impianto culturale che oggi è confuso anche tra i credenti impegnati in politica. Oltre il mito che gli storici smonteranno resta lo spirito e l’impegno di un piccolo ma ramificato gruppo che fu all’origine di un progetto storico di cui l’Italia repubblicana avrebbe beneficiato per più di cinquant’anni.
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