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25 Aprile 1945-2020, dalla Liberazione all’emergenza

Aggiornamento: 21 apr 2023

di Luciano Boccalatte

La festa nazionale della Liberazione si svolgerà in un periodo di persistente emergenza sanitaria. In presenza di norme che – giustamente – limitano spostamenti e manifestazioni, tutto si svolgerà attraverso i media e soprattutto sulle piattaforme digitali e sui social. Anche in queste sedi non ci saranno certamente risparmiate polemiche, ma se non altro non assisteremo alla stucchevole e incivile contestazione, ad esempio, contro la presenza della Brigata ebraica ai tradizionali cortei. Nella tragicità del momento, dove ogni giorno si contano i morti, in maggioranza tra i più fragili e demuniti, qualche riflessione può e deve essere proposta. Non si dimentichi l’origine di questa festa, istituita su proposta del primo governo De Gasperi e promulgata il 22 aprile 1946 da Umberto II con decreto luogotenenziale, col proposito di celebrare “la totale liberazione del territorio italiano”. Era certamente un’Italia diversa, dove i segni della devastazione provocata da cinque anni di guerra erano ferite tutte aperte (e lo saranno ancora per molto tempo). Né si dimentichi che il 25 aprile nel corso di 75 anni è stato segno di una solo apparente condivisione nella coscienza collettiva italiana: in realtà, la Resistenza non è stata mai completamente metabolizzata nel Paese, due Italie si sono contrapposte e si contrappongono, reciprocamente estranee. Molto precocemente ne furono consapevoli alcuni fra gli stessi protagonisti della lotta di liberazione: Giorgio Agosti, dirigente di primo piano della Resistenza GL (Giustizia e Libertà) in Piemonte e allora questore di Torino nominato dal Cln, così scriveva in una lettera privata il 3 novembre 1947: “Il nostro errore psicologico… è stato proprio nel credere che la grande massa degli italiani dovesse guardare con riconoscenza quei pochi che avevano preso l’iniziativa della riscossa e se erano addossati, nell’interesse di tutti, il peso più duro e tragico. E non abbiam capito che è proprio l’aver agito, quando gli altri scappavano o si nascondevano, ciò che milioni di “attendisti” non ci perdonano: la Resistenza sottolinea, per contrasto, il collaborazionismo, la viltà, la paura”. Sono parole dure, ma che assumono attualità e significato se si esaminano gli ultimi trent’anni della nostra storia, a partire dalla svolta epocale che superficialmente definiamo come “caduta del muro di Berlino”, avvenimento simbolico certo, ma prodotto di un lungo processo. È in quei primi anni Novanta che, possiamo dire, si ruppe una diga sul piano politico-culturale. Una svolta politico-culturale in cui confluivano il riflusso dopo la stagione degli anni Settanta-Ottanta, segnati dal terrorismo, il crollo dei partiti tradizionali e il presentarsi sulla scena di nuovi partiti e movimenti che, da una parte davano spazio, anche di governo, agli eredi della destra di origine fascista, dall’altra si presentavano come dichiaratamente ostili alla tradizione unitaria risorgimentale o, più recentemente movimenti programmaticamente avulsi da ogni rapporto con il passato. Un lungo processo che ha portato all’attuale crisi del discorso storico e della cultura umanistica, a un rapporto distorto tra storia e memoria, dove quest’ultima prende il sopravvento a discapito di un metodo storico dotato degli strumenti critici indispensabili, che si trova ad essere profondamente delegittimato. Sono ritornati, favoriti in ciò dalla diffusione immensa dei social, tutti i luoghi comuni già usati in passato per delegittimare la Resistenza come momento fondante dell’Italia uscita sconfitta dalla guerra, ma riscattata dalla scelta di chi prese le armi e di chi si schierò, nei modi più diversi, contro il rinato fascismo e l’occupante nazista. Si delegittima in tal modo la stessa Costituzione repubblicana, come si è potuto constatare. Non si è voluto fare i conti con il fascismo, anzi si sono avviati processi di banalizzazione, quasi non si trattasse di un regime liberticida, sminuendo fin il senso delle leggi razziali del 1938, “errore” o “imitazione” dell’alleato tedesco, occultando così il razzismo precocemente presente nel Regime e la complicità nelle deportazioni del fascismo estremo della Repubblica Sociale Italiana (Rsi), nata dopo la tragedia dell’8 settembre 1943. Si può indicare come esemplificativo, il concetto insistentemente riproposto di “memoria condivisa”, una contraddizione nei termini, poiché la memoria, individuale o collettiva, è per sua definizione parziale e selettiva. Così assistiamo ogni giorno, non ad un uso pubblico della storia, fenomeno sempre esistito, ma ad un quotidiano uso politico della storia stessa, ad un presentismo destoricizzato, dove la realtà è ridotta alla sua rappresentazione, vera o falsa che sia, usata “à la carte” secondo l’interesse immediato e strumentale del momento. Siamo sommersi da un diluvio di informazioni pseudostoriche, che fanno leva più sull’emozione che sulla ragione, entrate anche nelle aule parlamentari, quando non si tratti di vere e proprie campagne di disinformazione. E su tutto, una sempre più diffusa ignoranza della storia recente del nostro Paese, dei contesti internazionali, con una scuola che sempre più fatica, dall’università in giù, a insegnare la storia contemporanea. Non può stupire quindi la preoccupante presenza di gruppi neofascisti, che bene si inseriscono in una situazione di smarrimento generale e che trovano un terreno favorevole nelle connivenze più o meno palesi, o nell’indifferenza. È inquietante l’appello di Forza Nuova a scendere in piazza il 25 aprile per protestare contro il confinamento imposta dalla pandemia. Non che gli storici abbiano ignorato questi fenomeni, affrontati da diverse angolature e con diversi approcci: basti citare tra i tanti Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo (2004), Giovanni De Luna, La repubblica del dolore (2011) o Manuela Consonni, L’eclisse dell’antifascismo (2015), fino al saggio di Luca Falsini, La storia contesa, pubblicato nel febbraio di quest’anno. Resta, in questo 25 aprile così anomalo, una domanda aperta: “Che fare?”. Non ho risposte, se non la necessità urgente di ricostruire, proprio nella riflessione su questa data, un progetto condiviso comune a tutti gli italiani. Avrà l’attuale classe politica questa capacità e volontà? Viene spesso da dubitarne. O non sarà una battaglia già persa in partenza? “Non c’è bisogno di sperare per intraprendere né di riuscire per perseverare”: il motto di Guglielmo il Taciturno, principe di Orange che guidò la lotta di indipendenza olandese contro gli spagnoli nel XVI secolo, è ancora oggi attuale.


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