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Voto in condotta: tanta voglia di reprimere, poca di educare

di Amelia Andreasi Bassi

L’approvazione da parte del Governo del disegno di legge sul voto in condotta e sulle sospensioni è un tema che tocca tutti e non solo il mondo della scuola, perché è in gioco il concetto chiave per la costruzione del futuro del Paese. Il disegno di legge andrà in Parlamento e lì avverrà il confronto fra le diverse matrici culturali presenti e sulle quali si fonda l’idea di “educazione”.

Ma da qui ad allora, dati i frequenti interventi del ministro dell’istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, sarà indispensabile un grande lavoro di approfondimento, di discussione, di confronto, di aggiornamento da promuovere ovunque e ad ogni livello, cogliendo così l’occasione per mettere al centro del dibattito pubblico quale rappresentazione di Paese abbiamo e quale funzione educativa intendiamo attribuire alle sue istituzioni.


Scuola e Costituzione

E sarebbe bene partissimo proprio da qui, dal dirci, prima di tutto, che la scuola è un’istituzione della Repubblica e non un semplice servizio cui dei committenti pongono la domanda di una qualsivoglia formazione. La Scuola è chiamata dalla Costituzione a formare i suoi cittadini e le sue cittadine e per questa ragione è l’intera comunità ad essere interessata alla sua vita, ai suoi contenuti, alle sue relazioni con gli altri soggetti presenti nella società, a cominciare dalle famiglie, e, non ultimo, al suo futuro.

Esiste un nesso molto chiaro tra la difficoltà del ministro Valditara a rinnovare la convenzione con l’ANPI per le sue lezioni su Resistenza e Costituzione che da 10 anni svolge in stretta collaborazione con docenti e dirigenti scolastici e la riforma del voto in condotta appena approvata. E questo nesso sta proprio nell’idea austro-ungarica che egli ha della funzione educativa della scuola. E’ infatti del 1778 il decreto che recita che per la vera felicità dei sudditi va adottata una rigida disciplina a scuola.


La grande tradizione pedagogica italiana

Ma il nostro Paese, come invece sappiamo in molti, può vantare con un certo orgoglio una tradizione pedagogica di grande rilievo che affonda le sue radici nel pensiero e nella pratica di grandi Maestri: da Maria Montessori a Loris Malaguzzi, da Mario Lodi a don Milani a Danilo Dolci. Il tratto che accomuna questi straordinari educatori sta nel riconoscere la centralità della persona e la sua capacità di incidere sulla società attraverso un’educazione fondata sull’osservazione partecipante, sulla valorizzazione dei talenti, sulla relazione ineludibile tra individuo e società. Un’educazione capace di formare cittadini e cittadine consapevoli della loro possibilità di immaginare futuri alternativi e di incidere sulle sorti del pianeta attraverso l’esercizio dei propri diritti e doveri in un mondo interrelato e in costante evoluzione.

Ma valorizzare qualità e attitudini individuali rifiutando di insegnare l’obbedienza non significa non avere regole. Già Maria Montessori ci ha avvicinati al concetto di disciplina attiva, dove il contesto è sì disciplinato ma in modo condiviso, ragione per la quale ognuno si può riconoscere e di conseguenza sentirsi valorizzato come persona in relazione agli altri.

Le regole dunque perché possano avere valore e ottenere rispetto occorre siano comprese, fatte proprie, condivise, costruite insieme. Accompagnare i ragazzi e le ragazze a dare senso alle regole che incontrano è parte fondamentale del processo educativo ed è la via maestra per costruire responsabilità e autonomia nei ragazzi, nonché autorevolezza, nell’accezione che Chiara Valerio ci ha ricordato proprio ieri, 20 settembre, in un articolo su Repubblica.


Gli educandi non sono "vasi vuoti"

La nostra scuola da anni si sta strutturando a formare per competenze per lo più intese come acquisizioni atte a rendere gli/le studenti performanti rispetto ai bisogni del mercato del lavoro. Ed è proprio in questo sforzo la causa principale della grande inadeguatezza del nostro sistema formativo nel suo complesso.

Rafforzare le competenze può invece voler dire esaltare un’educazione che problematizzi, alternativa a quella “depositaria”, come definita da Paulo Freire, che guarda agli educandi come “vasi vuoti” da riempire. Tanto più in un mondo globalizzato e digitalizzato che vede trasformazioni costanti e profonde delle società come dei processi lavorativi e delle professioni. Significa dunque intendere le competenze come capacità di utilizzare le conoscenze sommandole alle capacità e alle abilità sociali e metodologiche in situazioni di studio, di lavoro e di sviluppo personale e professionale.

Educare allo sviluppo di competenze significa ispirarsi a principi di responsabilità e autonomia che trovano eco profonda nel concetto di sviluppo umano così come inteso nella recente definizione dell’economista A. Sen: “Tutto ciò che riguarda le libertà umane: libertà di realizzare il pieno potenziale di ogni vita umana, non solo di pochi, né dei più, ma di tutte le vite in ogni angolo del mondo adesso e in futuro”.

In questo tipo di prospettiva appare ancora più grande la distanza tra gli obiettivi normativi e punitivi del disegno di legge del governo e quelli perseguiti dall’idea di un’educazione capace di futuro.





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