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Un libro per voi: "Che cosa resta del Novecento" per orientarci nel presente

di Ferruccio Marengo


Pur essendo definito dallo stesso autore un ‘piccolo libro’, l’ultima pubblicazione di Giovanni De Luna - Che cosa resta del Novecento, Utet, 2023 - non è privo di una sua complessità, nella quale narrazione storica ed elementi autobiografici s’intrecciano. La Storia è quella del Novecento e dell’epoca che stiamo vivendo, ancora in divenire, il Post Novecento, che De Luna affronta con il rigore proprio dello storico. La biografia è quella dell’autore stesso - un uomo del Novecento, come egli stesso afferma - che quegli eventi ha vissuto e vive dal suo ‘punto di vista’, con i suoi riferimenti interpretativi, le sue speranze, i suoi progetti e la passione del suo impegno politico. Vicende, quelle della Storia e quelle biografiche, che s’intrecciano ma non si sovrappongono, e che De Luna, nel suo ‘piccolo libro’ riesce a mantenere congiunte ma distinte, sottoponendo la prima al rigore dell’analisi storica, la seconda a una rivisitazione, qualche volta critica, della sua vicenda di uomo del Novecento.

E proprio dal Novecento inizia la Storia narrata da De Luna, per ricordare che quello appena passato è stato il secolo delle guerre: dal 1900 al 1993, mettendo insieme conflitti internazionali, genocidi di interi popoli, pulizie etniche e terrorismo, se ne sono combattute 54. Tra queste, le due guerre mondiali, che hanno fatto milioni di vittime, decretato la fine dell’egemonia europea e portato alle sue estreme conseguenze l’intreccio tra guerra, ricerca scientifica e apparati industriali, culminato con la realizzazione della bomba atomica, l’arma più micidiale e insensata che l’umanità abbia mai costruito.

Ma il Novecento è stato anche il secolo dei totalitarismi, frutti avvelenati di due crisi epocali: quella degli equilibri mondiali dissoltisi con la Grande Guerra, e quella del crollo economico del 1929. Totalitarismi che hanno condotto al secondo conflitto mondiale e aperto la strada all’impiego di biopolitiche ‘negative’ incardinate sulle dicotomie noi-loro, normale-anormale, che hanno dispiegato la loro ala funerea e tragica nella Germania nazista fin dalla metà degli anni Trenta, prima con l’Aktion T4, volta a identificare ed eliminare le ‘vite di nessun valore’, poi, durante la guerra, col programma di sterminio di interi popoli.

Il Novecento è stato altresì il secolo delle grandi industrie, della meccanizzazione e della produzione di massa, che hanno dato nuova forma alla stratificazione sociale e al modo di vivere. Con le grandi fabbriche è cambiato il lavoro ed ha assunto centralità una nuova area di conflitto sociale: quella tra operai e industriali. L’enorme capacità produttiva dell’industria meccanizzata ha innescato il circolo virtuoso che ha permesso alle masse salariate di lavorare, guadagnare e consumare di più, dando forma, nei paesi ricchi dell’Occidente, alla società dei consumi.

Nel contempo, gli Stati, sollecitati dalla crescente influenza delle masse sui processi politici, hanno ampliato la loro azione nei campi della salute, dell’istruzione, delle garanzie sociali. Sarebbero dovuti passare alcuni decenni perché questo modello di produzione, consumo e protezione sociale mostrasse i propri limiti. La crisi energetica degli anni Settanta, mai superata, e la ‘questione ambientale’ hanno imposto la consapevolezza che la crescita infinita, in un mondo finito, non è possibile. E ciò ha scardinato l’equilibrio fondato sull’aumento continuo dei consumi, ha reso insostenibile l’impianto economico novecentesco e minato il ‘patto sociale’ sul quale si reggeva. Nei paesi ricchi dell’Occidente sono crollate le ciminiere e, insieme con esse, sono entrati in crisi i modelli novecenteschi di economia, di Stato e di partecipazione politica.

A conti fatti, il Novecento non è stato un bel secolo. Ciò nonostante, per coloro che in esso hanno vissuto, si sono formati, hanno lavorato e lottato, l’ingresso nell’era postnovecentesca è segnato da uno stato di disagio, d’inquietudine. Effetto certamente del cambiamento che li ha investiti, della sua rapidità, della fatica di dover ricostruire i paradigmi interpretativi di una realtà nuova. Ma c’è dell’altro.

La fine del ‘Secolo breve’, identificata con la caduta del muro di Berlino, è stata accompagnata da un diffuso ottimismo: terminata la guerra fredda ci si sarebbe avviati sulla strada del benessere globale, illuminato dal predominio della democrazia statunitense. Ci fu chi preconizzò la ‘fine della storia’, grazie alla diffusione universale della democrazia liberale. Altri, meno ottimisti, mantennero in vita una visione bipolare del mondo, limitandosi a sostituire l’antinomia tra est e ovest con quella dello ‘scontro di civiltà’ tra l’Occidente e il resto del mondo. Nessuna di queste profezie si è avverata.

A più di trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, gli equilibri geopolitici rimangono fortemente instabili e segnati da continui conflitti tra i paesi e all’interno di essi. La fine della guerra fredda non ci ha ‘regalato’ la fine dei muri, ma la loro proliferazione. Negli ultimi anni ne sono stati costruiti quasi 10.000 chilometri, in Europa, Nord America, Asia e Africa. Sono muri che non separano più regimi ideologici differenti, come quello di Berlino: alcuni sono stati costruiti come difesa dal terrorismo, altri (i più) per impedire il passaggio dei migranti dai pesi poveri a quelli ricchi, altri ancora per separare popoli con differenti identità religiose. Non servono per separare le idee, ma le persone.

E non ci ha regalato neppure la fine delle guerre, che si sono moltiplicate e sempre più trasformate in guerre ‘asimmetriche’, dove in gioco sono spesso la difesa (o l’imposizione) di identità culturali, religiose ed etniche; dove non si combatte per interessi geopolitici, ma per distruggere l’altro, il nemico, il Male. 

La globalizzazione ha profondamente trasformato i processi economici che, sfuggiti al controllo della politica e affidati alle sole regole del mercato, concorrono ad accrescere l’instabilità e la diffusione su scala planetaria delle crisi, com’è avvenuto nel 2008. Il lavoro si è frammentato in una molteplicità di ruoli e modalità di erogazione. Ha perso la centralità che aveva acquisito nel Novecento e smarrito la sua dimensione collettiva, lasciando il lavoratore solo, attanagliato da un’ansia costante. Se il Novecento è stato il secolo delle masse, il Post Novecento è l’epoca dell’individuo e dell’individualismo. Nei paesi ricchi, lo stato sociale è costantemente minacciato da una politica dell’austerità che è, in realtà, funzionale al trasferimento di quote consistenti ricchezza dal pubblico al privato, dalla collettività ai singoli.

La diffusione dei conflitti, lo stato d’incertezza portato dalla globalizzazione, l’erosione del welfare, la crisi economica del 2008, le paure innescate dalle migrazioni, l’accelerazione degli effetti del cambiamento climatico e, da ultimo, l’esplosione della pandemia da Covid 19 hanno fatto crescere una domanda di protezione, soprattutto dalla parte più debole della popolazione. Una domanda intercettata con successo soprattutto dalle formazioni politiche di destra, che hanno offerto ad essa una risposta ‘regressiva’, incardinata sull’enfatizzazione delle differenze e sulla divisione tra noi e loro, tra i buoni (noi) e i cattivi (gli altri generalizzati, di volta in volta identificati dal colore della pelle, dal luogo di provenienza, dalla religione, dalle tradizioni culturali, dalla condizione economica). Si è nello stesso tempo enfatizzato il valore delle ‘piccole patrie’ e dell’identificazione diretta, non mediata dai partiti e dai meccanismi della rappresentanza politica, tra popolo e leader, promuovendo l’affermarsi dell’idea di ‘democrazia illiberale’.

E’ cresciuta una forma di populismo sovranista che trae forza da una lettura semplicistica della realtà, che sarebbe governata dall’azione di tre soggetti: il popolo, guidato dal Capo nel quale il popolo stesso s’identifica; non meglio definite élite politiche, economiche e culturali, che detengono il potere; il ‘nemico’ che deve essere battuto, di volta in volta identificato con i migranti, i ‘poteri forti’, l’Unione Europea, eccetera. Per lottare contro questi nemici si sono edificati, idealmente e fisicamente, nuovi muri; per difendersi da essi si sono abbandonati i luoghi collettivi e ci si è rinchiusi nei fortilizi del privato, del domestico; la dimensione pubblica, la comunicazione con l’altro è stata trasferita dalle piazze alla rete. Quest’ultima si è rivelata la struttura ideale per alimentare la propaganda, anche attraverso la diffusione di ‘voci’ che, anche quando sono ingannevoli, alimentano le paure e le speranze dei lettori, espropriati di ogni possibilità di verifica. La rete finisce così per innescare processi informativi alimentati e confermati dalla rete stessa, indipendentemente dalla genuinità del contenuto informativo. Si è nel contempo rivelata funzionale alla diffusione di una visione semplicistica della realtà, alla quale è estranea ogni espressione di complessità e contraddittorietà; così come è funzionale all’affermazione di un approccio individualistico dal quale sono rimossi i vincoli e le responsabilità verso la collettività.

Il Novecento è stato il secolo della politica, soprattutto per le generazioni che si sono formate negli anni Sessanta e Settanta. “Per quelli come me - ricorda De Luna – il Novecento, per come l’abbiamo vissuto, è stato essenzialmente il secolo della politica. ‘La politica deve dirigere tutto’ era lo slogan di cui ci appropriammo e che rappresentava bene il delirio di onnipotenza che attraversò il ‘secolo breve’. Con il trionfo della politica rivoluzionaria si sarebbero raddrizzate tutte le storture del mondo…”. Il Post Novecento è il tempo dell’individuo, della solitudine, della disaffezione verso la politica, del disfacimento dei partiti novecenteschi, dell’irresponsabilità. E’ il tempo di una democrazia ‘stanca’, priva di passioni.

Come uscire da questa lunga e faticosa fase di transizione, da questo Post Novecento che continuiamo a definire attraverso ciò che non è perché stentiamo a dare ad esso un nome, a indicarne l’essenza?

Giovanni De Luna non si sottrae all’onere di ricercare una risposta a questi interrogativi. E lo fa tornando, ancora una volta, al ‘suo’ Novecento, al ‘miracolo’ che gli Italiani hanno compiuto negli anni della Resistenza, della guerra civile, dell’avvio della Repubblica, quando s’intrecciò “un tumulto di passioni civili che fecero della democrazia il volano per attivare le energie collettive”. Una democrazia nata su valori condivisi nel segno del pluralismo e della tolleranza.

“Oggi come allora, sarebbe auspicabile farla rinascere soprattutto nelle nostre coscienze individuali, con la consapevolezza che essa può vivere solo se a nutrirla è la linfa vitale di un rinnovato patto di cittadinanza fondato sulla convivenza”.  Quest’idea di democrazia è ciò che ci resta del Novecento. Non è poco.

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