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Piromani di guardia... alla polveriera del Medio Oriente

Aggiornamento: 15 gen

di Maurizio Jacopo Lami


Cento e un giorno a Gaza. Ma in quella striscia di terra sanguinolenta non si proietta la Carica dei Centouno di disneyana memoria. Non c'è nulla di allegro in quel guerrificio che produce soltanto morti e distruzione in quantità industriale, mentre la Comunità internazionale assiste inerme, incapace di fermare la potenza distruttiva del governo di Israele, nuovo interprete del concetto di rappresaglia che sta riportando l'umanità indietro di un secolo.

Su Gaza, dal 7 ottobre, dal giorno del criminale attacco terroristico di Hamas, è sceso l'inferno. Tel Aviv cannoneggia e bombarda senza soluzione di continuità interi quartieri, li ha rasi al suolo, limitandosi a contabilizzare i morti palestinesi censibili con le sue innumerevoli apparecchiature elettroniche, tralasciando di numerare i corpi schiacciati dalle macerie, in massima parte bambini. Anche la ragioneria di stato ha i suoi buchi neri.

Così, il premier israeliano Netanyahu non si ferma e si fa beffe delle richieste dell'Onu. Grida al mondo che nessuno potrà fermare Israele, né la corte dell'Aja, che l'accusa di genocidio, né l'asse del male o nessun altro. Lui e Israele marceranno con lugubre rimbombo sulla striscia di Gaza, anche se è chiaro che l'azione militare è controproducente e si risolve di giorno in giorno in una ulteriore radicalizzazione dell'odio tra i popoli. Quell'odio da cui lo stesso premier trae credito per giocarsi le ultime carte della sua sopravvivenza politica con grande gioia dei suoi oppositori che si ritroveranno a sostenere di non avere le mani macchiate di sangue, ma non per questo saranno più disponibili verso i palestinesi, se il popolo d'Israele non leverà alto il suo desiderio di pace.

Intanto Gaza, dicono i funzionari delle Nazioni Unite, perde il suo futuro sotto le bombe, muore di fame, di stenti e di malattie. Versione XXI secolo dell'Ecce homo, mentre il conflitto si allarga al Golfo di Aden e al Mar Rosso.

L'attacco di Stati Uniti e Gran Bretagna agli Huthi i nello Yemen porta a considerazioni sulla gravità della situazione internazionale. La prima costatazione è che la guerra cominciata il 7 ottobre fra Hamas ed Israele sta coinvolgendo in un modo o nell'altro l'intero Medio Oriente e produce pretesti ed elementi per scatenare nuove tensioni e scontri armati. In Libano, Hezbollah sembra oscillare fra la tentazione di attaccare Israele e la consapevolezza che sarebbe un vero disastro farlo. I dirigenti di Hezbollah sanno benissimo che se attaccassero, la risposta di Tel Aviv sarebbe terribile. Ma sanno anche che nessuna grande potenza non occidentale interverrebbe per difenderli. Del resto, chi comanda in Israele, ha promesso di "distruggere Hezbollah se dovesse commettere la follia di muovere contro di noi" e il ministro della Difesa Yoav Galant non è stato da meno, affermando che "se Hezbollah vuole la guerra, la nostra risposta sarà terribile: Beirut subirà la stessa cura di Gaza, nulla di meno". Traduzione per i non udenti: "sarà la fine per gli sciiti filoiraniani in Libano, perché noi israeliani, circondati da nemici, siamo molto più forti di loro e non li lasceremo in piedi. Il popolo israeliano non sarà vittima di un altro Olocausto, non si farà distruggere. Attaccheremo i nostri nemici, conosciamo tutto di loro e sappiamo come sconfiggerli".

Il rovescio della medaglia è che con questa filosofia della difesa estrema, Israele si arroga il diritto di giudicare che cosa rappresenti per sé un pericolo irreversibile, spostando sempre più in basso l'asticella dei torti con il rischio che di questo passo sarà un crimine avere anche opinioni diverse; un metro di misura inversamente proporzionale alla vendetta che punta sempre verso l'alto. Non a caso c'è chi a Tel Aviv ha già avanzato apertamente l'uso di ordigni nucleari, trovando udienza e accoglienza benevole.

E due dati danno l'idea di quanto sia grave la situazione. Dall'inizio della crisi sono già stati uccisi già più di 150 miliziani di Hezbollah e soprattutto è stato eliminato Hassan Tawil, il più importante dirigente militare dell'organizzazione. Colpito con un drone in un attacco molto accurato, nonostante usasse molte precauzioni (cambiava itinerari, luoghi di residenza, usava cellulari diversi ogni giorno, si fidava di pochissime persone...); la sua morte ha dimostrato che nonostante la terribile débâcle dell'7 ottobre dell'intelligence, il Mossad, responsabile di operazioni all'estero, sta ricominciando a lavorare in piena efficienza. Il governo libanese ha scongiurato Hezbollah di non attaccare perché non vuole essere coinvolto in un'altra guerra: "sarebbe un disastro". E in verità i dirigenti dell'organizzazione sembrano essere della stessa opinione, ma il problema è che così perderanno ogni credito presso i palestinesi che cominciano a comprendere di essere stati usati ed ingannati per l'ennesima volta dall' alleato di turno.

Altro fronte incerto e in ebollizione è quello della Siria, dove Israele continua a colpire le milizie filoiraniane e addirittura i dirigenti dei Guardiani della Rivoluzione iraniani, cioè il cuore del regime di Teheran. In Siria l'IDF, le forze armate israeliane, ha ucciso addirittura Seyed Razi Mousavi, in pratica il più importante comandante dei Guardiani della Rivoluzione iraniani, il dirigente incaricato di organizzare e tenere sotto controllo il complicatissimo traffico di armi, denaro e logistica che si sviluppa e dipana fra Iran, Libano, Iraq, Siria e Yemen. Uccidendolo con un attacco aereo non solo si è messo in difficoltà questo traffico (anche perché sono stati uccisi numerosi altri ufficiali delle guardie in più raid), ma si è mandato un chiaro messaggio al governo degli ayatollah: "Non abbiamo paura di voi, non siete affatto invincibili, se farete la guerra sarete voi a perderla".

Del resto, il regime di Teheran dà l'impressione di non sapere cosa fare, o come è più probabile nelle grandi organizzazioni, è diviso in due fazioni che hanno opinioni diametralmente opposte, falchi e colombe. Fra i Guardiani della rivoluzione sembra esserci la tentazione di spingere i vari alleati (Hezbollah, milizie filoiraniane in Siria e Iran, gli Huthi in Yemen) ad attaccare Israele a fondo. All'opposto, i comandanti delle forze armate sembrano di diverso parere: temono le pericolose conseguenze di un simile comportamento per il futuro stesso del regime religioso.

Così anche in Iran la situazione si trascina nell'incertezza. Forse il fatto più significativo è avvenuto dopo l'attacco degli Stati Uniti agli Huthi in Yemen. Il presidente Joe Biden ha mandato un messaggio "riservato" al governo iraniano. Pare, secondo autorevoli fonti che il senso del messaggio sia stato che gli Usa hanno colpito gli Huthi perché danneggiavano il commercio internazionale (si riferisce naturalmente agli attacchi dei ribelli sciiti alle navi ), ma questo non comporta il coinvolgimento dell' Iran. Morale: la Casa Bianca Uniti non intende attaccare l'Iran ed è sicuro che questo atteggiamento sia reciproco". 

Alcuni hanno ritenuto questo messaggio un segno di debolezza, una autolimitazione pericolosa.  Secondo più osservatori di politica internazionale, Biden "si dimostra debole perfino quando bombarda. Attacca e nello stesso tempo dice che non andrà oltre un certo limite". Le critiche lasciano il segno, mentre le elezioni americane si avvicinano e il presidente in carica rischia il trasloco da Washington. A rendere ancora più complicata la situazione è la posizione di Netanyahu, che non sembra accogliere i consigli dell'alleato migliore di Israele, cioè di passare a una guerra di tipo chirurgico, che nella sostanza, però non si capisce bene come si possa applicare nella Striscia di Gaza.

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