Opzione uomo e il realismo dei conti
di Emanuele Davide Ruffino e Edmondo Rustico
Passate le elezioni, si può tornare a ragionare non su cosa si vorrebbe, ma su cosa la realtà dei fatti permette. E così la riforma pensioni comincia a prendere forma con una nuova proposta: “opzione uomo” che sembra rispondere alle necessità del nascituro esecutivo, per superare la Legge Fornero.
I termini del problema
Anche prima delle elezioni lo scenario su cui operare era già definito con chiarezza[1]: troppe le persone in età giovanile disoccupate (o impegnate nel lavoro nero) e persone anziane che non possono allontanarsi dal lavoro (anche se già affette da problemi di salute e quindi obbligate a lunghi periodi di mutua), non perché non avessero versato sufficienti contributi, ma per il rigidismo imposto dalla Legge Fornero, emanata in situazioni d’urgenza, quando politiche allegre e finanze creative avevano portato lo spread a 500 punti.
Quell’esperienza e le recenti passioni che sta vivendo il governo inglese obbligano prudenza e razionalità. Ciò non significa rinunciare ai sogni, ma in economia questi vanno costruiti su solide basi, con una visione prospettica di tutta la società e con le finanze in regola. E ciò non perché lo vuole l’Europa o qualche economista alla Quintino Sella, ma perché la ricchezza di una nazione non si proclama per decreto o generando deficit, ma creando le condizioni affinché il lavoro possa esprimersi in tutte le sue potenzialità.
L’Opzione Uomo risponde all’esigenza di restituire flessibilità ad un sistema reso ingessato da regole e provvedimenti accumulatosi nei tempi e che fecero parlare più volte di “giungla delle pensioni”. È possibile che il provvedimento sia approvato frettolosamente per l’esigenza di superare lo stallo dettato da provvedimenti provvisori (quota 100 e 102) accumulatosi in questi ultimi anni e che non rispondevano ad un requisito fondamentale: quello di mantenere in equilibrio i conti tra quanto versato e quanto distribuito.
Tale equilibrio si ottiene o tramite i contributi versati dal singolo lavoratore o con le fiscalità generale che però, in tempi di crisi e di recessione alle porte, non può essere sollecitata ad oltranza. Rimane il problema dell’iniquità generata tra chi è potuto andare in pensione con 15 anni sei mesi e un giorno, chi con quota 100 e chi solo con quanto ha versato nel corso della sua vita lavorativa. Ma fermarsi a rivendicare presunti egualitarismi generazionali rischia di bloccare i processi di riforma, accentuando ulteriormente le differenze.
Le sfide pensionistiche
Mutuando il meccanismo di Opzione donna gli "esperti previdenziali" vicini al futuro governo sembrano ipotizzare l'introduzione di un meccanismo che permetterebbe di andare in pensione a 58-59 anni di età e 35 anni di contributi, perdendo però fino al 30 per cento della pensione, ma lasciando al soggetto la libertà di disporre dei fondi versati come meglio crede (senza pesare sulle casse pubbliche). Quindi, come per Opzione donna, per lasciare il mondo del lavoro in anticipo occorrerà un "sacrificio" dal punto di vista economico, lasciando aperto uno spiraglio di recuperare parte del sacrificio al raggiungimento di quota 67 o in base agli andamenti economici che si registreranno nei prossimi anni. È evidente che con un’inflazione interno al 9% i problema non è solo la penalizzazione iniziale, ma le modalità di adeguamento che si andranno ad approntare (fattore tutt’altro che certo).
Con "Opzione Uomo" la futura premier Giorgia Meloni non solo manterrebbe parte delle promesse formulate in campagna elettorale sulla flessibilità di lasciare il lavoro ma, così facendo, non dovrà stravolgere i conti statali, tranquillizzando l’Europa. È chiaro che un pensionamento anticipato comporterebbe un taglio dell'assegno pari a quasi un terzo del valore reale. Lo spettro però che torni la Legge Fornero (pensione a 67 anni con almeno 20 di contributi) oppure una volta maturati 42 anni e 10 mesi di contributi (un anno in meno per le donne) senza che l’età diventi un requisito può costituire un incentivo a mettere mano velocemente alla riforma e non solo limitarsi a qualche proroga che accentuerebbe solo i problemi e non qualificherebbe il Governo per la sua capacità di innovare.
Qualsiasi soluzione però è meglio dell’attuale situazione, dove non si sa quando si può andare in pensione, non si quanto si può prendere, se e come tali importi saranno rivalutati e se ci si potrà ancora impegnare in attività lavorative saltuarie, permettendo di sfruttare specifiche competenze o opportunità contingenti. D’altra parte le imprese non sanno se e quante forze lavoro lasceranno il lavoro e con quali tempistiche (la stabilità degli scenari è una condizione per incentivare gli investimenti) e se la Pubblica Amministrazione che già vanta l’età più vecchia dei dipendenti tra i Paesi europei, sia destinata a diventare ancora più vecchia e sempre meno rispondente ai tempi.
[1] Emanuele Davide Ruffino, Riforma pensionistica, ci siamo.. forse in https://www.laportadivetro.com/post/riforma-pensionistica-ci-siamo-forse
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