Le strategie di Netanyahu e l’inizio della fine del sionismo
Aggiornamento: 11 nov
di Stefano Marengo
Benjamin Netanyahu, detto Bibi, sta portando alle estreme conseguenze la strategia del “fatto compiuto”, un approccio volto a sbarazzarsi “sul campo”, e senza possibilità di marcia indietro, di ogni obiezione morale, politica o legale possa essere rivolta alle mire del governo di Tel Aviv. Non si tratta di una strategia nuova, ma piuttosto di una prassi che Israele ha adottato sin dalla sua fondazione. Già nel 1948 il mondo fu messo di fronte al fatto compiuto della pulizia etnica della Palestina. Allo stesso modo, costituirono un fatto compiuto gli esiti della guerra che nel giugno del 1967 condusse all’occupazione di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est, oltre che del Sinai e delle alture del Golan. Fatti compiuti, infine, sono le continue costruzioni ed espansioni di insediamenti coloniali nei territori occupati.
Le fondamentali coperture di Washington
Lo schema che si ripete è sempre il medesimo: quando i propositi dello stato ebraico si sono scontrati con i limiti posti dal diritto internazionale (e tutte le azioni appena descritte sono illegali per le convenzioni delle Nazioni Unite), i governi israeliani hanno usato la forza per creare nuove realtà secondo i propri disegni.
Va da sé – e si tratta di un punto essenziale – che Israele può utilizzare questa strategia unicamente perché gode del sostegno e della copertura politica pressocché incondizionata della superpotenza USA, che da sempre mantiene i governi di Tel Aviv al riparo da ogni possibile condanna, sanzione o ritorsione internazionale. E per quanto talvolta, per salvare le apparenze, da Washington giunga qualche richiamo verbale alla moderazione, il pendant pratico è in genere una sostanziale libertà d’azione accordata allo stato ebraico. La colonizzazione dei territori occupati è da questo punto di vita paradigmatica: in questo caso non è inusuale, da un lato, ascoltare prese di distanza formali da parte degli Stati Uniti, mentre dall’altro si assiste al proliferare di nuovi insediamenti, e tutto ciò senza che la relazione tra Washington e Tel Aviv ne abbia mai a risentire.
In un precedente articolo ho descritto tale relazione come un rapporto simbiotico in cui Israele gode della copertura americana fornendo agli USA, come contropartita, una testa di ponte di fondamentale importanza in una regione nevralgica del pianeta. Questa dialettica può spiegare numerosi aspetti della fase attuale che altrimenti rimarrebbero incomprensibili. Essa può spiegare, ad esempio, l’atteggiamento di Biden, che da una parte esprime preoccupazione per le sorti della popolazione civile di Gaza e fa recapitare sulla Striscia qualche migliaio di kit umanitari, mentre dall’altro continua a vendere armamenti a Israele e decide di bloccare per tutto il 2024 i fondi destinati all’UNRWA, ossia l’agenzia ONU che si occupa proprio dei rifugiati palestinesi.
Dovremmo chiederci se questa continuità, questa inerzia del rapporto simbiotico può reggere di fronte alla situazione di totale catastrofe umanitaria creata da Israele nella Striscia di Gaza. Sebbene in modi diversi, Netanyahu e Biden sembrano in effetti intenzionati a replicare gli schemi del passato, ed entrambi sembrano sottovalutare il fatto che l’enormità della posta in gioco può segnare un punto di non ritorno tanto per Israele quanto per gli USA.
Preoccupazioni di una escalation in Medio Oriente
Netanyahu, che in questi cinque mesi e mezzo di assalto a Gaza non ha potuto esibire alcun reale successo militare, appare fermamente deciso sia a continuare il blocco degli aiuti umanitari destinati alla Striscia, cosa che sta già causando la morte per fame di decine di persone, sia ad intraprendere l’invasione via terra di Rafah, l’area a sud della di Gaza dove hanno trovato precario rifugio oltre un milione e mezzo di sfollati palestinesi. Quella che ne risulterebbe sarebbe una carneficina di proporzioni incalcolabili, con decine di migliaia di morti che si aggiungerebbero agli oltre 30mila attuali. Ma ciò che Netanyahu ha in mente è ancora una volta la strategia del fatto compiuto, l’azione violenta per creare una nuova realtà in accordo con i propri disegni, sicuro che il giorno successivo non verrà abbandonato dal padrino americano.
Biden, da parte sua, appare unicamente interessato a evitare un’escalation del conflitto nel resto della regione mediorientale, cosa che finirebbe per richiedere l’impiego sul campo delle forze armate americane. La Casa Bianca, al riguardo, è perfettamente consapevole che un’ulteriore azione militare israeliana a Rafah potrebbe innescare un effetto domino che allargherebbe il conflitto almeno al Libano; ciononostante la Casa Bianca, un po’ per convinzione, un po’ per calcolata convenienza, non è disposto a voltare le spalle a Netanyahu. Il Presidente USA non intende cioè compromettere il legame con il suo alleato di ferro in Medio Oriente, né desidera alienarsi, in questo anno elettorale, le simpatie delle potentissime lobby filoisraeliane presenti negli Stati Uniti.
Lo scenario lascia pochi dubbi e tante preoccupazioni: a meno dell’intervento di variabili terze, l’azione militare israeliana proseguirà e si intensificherà, così come proseguirà il blocco degli aiuti alla popolazione di Gaza, mentre verrà in qualche modo tutelato il rapporto privilegiato Washington-Tel Aviv. La domanda che occorre porsi riguarda invece come reagirà il resto del mondo. La cosiddetta comunità internazionale potrà ancora stare a guardare, come per lo più si è limitata finora, salvo rarissime eccezioni? Nell’ascoltare, in questi giorni, dichiarazioni di politici e governi anche storicamente vicini allo stato ebraico appare sempre più evidente come Netanyahu sia pericolosamente prossimo a varcare una linea rossa al di là della quale non sarà più un tabù immaginare azioni politiche concrete per isolare Israele. Gran parte del sud del mondo, come si evince ad esempio dalle recenti parole del premier malese Anwar Ibrahim o dalla scelta di alcuni governi sudamericani di sospendere le relazioni diplomatiche con Tel Aviv, appare deciso a percorrere questa via.
Le critiche dello storico Ilan Peppe
Va da sé che, nel magma degli eventi quotidiani, ogni previsione corre il rischio di venir smentita subito dopo essere stata formulata. Tuttavia, senza compromettere il quadro generale tracciato, si può leggere il presente anche da un punto di vista interno alla “logica evolutiva” dell’ideologia sionista e della sua realizzazione storica come stato di Israele. È quello che ha fatto lo storico israeliano Ilan Pappe, il quale ritiene che la fase che si è aperta con la guerra su Gaza segni “l’inizio della fine del progetto sionista”. Già da molto tempo, sostiene Pappe, la società israeliana, per altri versi estremamente disgregata e conflittuale, è caratterizzata da un estremismo e un razzismo crescenti, alla cui base si trova il sionismo come ideologia colonialista di insediamento che impone di appropriarsi di sempre nuove terre attraverso l’espulsione degli abitanti nativi.
Da qui il ricorso sempre più sistematico e capillare alla violenza, come provano proprio in questi mesi i continui raid dei coloni in Cisgiordania contro villaggi e proprietà palestinesi. Questa furia, dice Pappe, finisce però per innescare una spirale autodistruttiva e già oggi il comportamento israeliano suscita l’emergere a livello globale di sempre più voci critiche, non ultime innumerevoli voci ebraiche che rifiutano ogni legame con Israele e si fanno latrici di posizioni radicalmente antisioniste. Il crollo del consenso nell’opinione pubblica mondiale e l’isolamento sempre più marcato in cui Israele viene a trovarsi sono ciò che fa sì che la fase terminale di un progetto come quello sionista non sia per nulla indolore, ma anzi sia caratterizzata da brutalità inaudite e da immani sofferenze. Si tratta di un momento indiscutibilmente buio, conclude Pappe, ma di un buio che può precedere l’alba della liberazione di un popolo, quello palestinese, che per troppi decenni è stato schiacciato dall’occupazione militare e dalla colonizzazione.
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