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La transizione ecologica: meno formule magiche, più impegno per cambiare il futuro

Aggiornamento: 1 lug 2023

di Mercedes Bresso

“I limiti dello sviluppo”, “nuovo modello di sviluppo”, “riconversione ecologica dell’economia”, “sviluppo sostenibile”, “transizione ecologica”… probabilmente ho dimenticato qualche formula magica, altre le ho volontariamente evitate, come la “decrescita felice”. Molte definizioni di successo sono state create negli ultimi cinquant’anni, a partire dal famoso rapporto del Club di Roma che, nel 1970, scosse l’opinione pubblica ricordando che stavamo consumando in pochi decenni risorse minerarie ed energetiche accumulate da milioni di anni e che le rigettavamo nell’ambiente come rifiuti non smaltibili dai processi del mondo vivente. Da allora, nel mondo come in Italia, le preoccupazioni per l’ambiente sono state messe da parte e poi tornate di moda più volte, ogni volta certo con maggiori conoscenze scientifiche e tecniche dei cambiamenti in atto. Sempre però con la certezza che quello fosse finalmente il momento in cui la presa di coscienza dei nostri doveri verso il resto del mondo vivente, si sarebbe consolidata e avrebbe modificato in profondità il nostro modo di vivere e di produrre. Purtroppo non è mai stato così, anzi l’arrivo a buoni livelli di sviluppo di immensi Stati, come quelli asiatici e latino americani (e ben presto anche africani) ha fatto aumentare i consumi totali di risorse minerarie ed energetiche e le emissioni solide, liquide e gassose di rifiuti. Anche se è vero che una modesta riduzione pro-capite di consumi e rifiuti è avvenuta nei paesi più ricchi e che sono state introdotte tecnologie a minore impatto, ma spesso a fronte di aumenti di produzione totale. Forse questa è la volta buona? Dopo gli accordi di Parigi i paesi europei sembra che si siano messi a fare sul serio, fissandosi l’obiettivo della de-carbonizzazione al 2050 e la riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030. E hanno deciso di destinare il 37% dei fondi del Recovery plan alla transizione ecologica (il 20% a quella digitale). Questo dovrebbe voler dire che dalla pandemia dovremmo uscire con nuove attività a impatto basso o zero e con una forte riduzione delle emissioni da parte di tutte le attività tradizionali e delle famiglie. E con l’utilizzo delle tecnologie digitali anche per ridurre gli impatti sull’ambiente delle attività di vita e di lavoro. Anche l’America di Biden sembra orientata a basare l’uscita dalla crisi sulla spinta all’economia verde e la Cina, che non vuole perdere la “corsa Green” annuncia di voler fare altrettanto: in entrambi i casi vengono sottaciuti problemi di assoluto rilievo, come il fatto che gli USA hanno ritrovato l’autonomia energetica grazie al famigerato petrolio da scisti e che la Cina usa ancora largamente il carbone e che è molto probabile che, ad esempio, la sua agricoltura sia destinata per lungo tempo ad aumentare le emissioni. Mancano forse, nelle intenzioni degli Stati, alcune questioni essenziali, come la necessaria opera di educazione della popolazione, su base scientifica e non solo emotiva, a quanto siano importanti le scelte delle famiglie e la formazione ecologico/tecnica a tutti i livelli del mondo produttivo e dei servizi. E magari anche del mondo politico. Recentemente le preoccupazioni maggiori sono relative al riscaldamento dell’atmosfera a causa dell’emissione dei gas a effetto serra e al cambiamento climatico che ne consegue. L’accento politico è quindi messo soprattutto sulle politiche energetiche e sulla riduzione delle emissioni inquinanti in atmosfera. Sono stati messi in ombra i timori, altrettanto fondati, relativi alle carenze idriche, all’inquinamento dei mari, alla rapida diminuzione della bio-diversità e alla gestione dei rifiuti solidi e liquidi. Per questi si punta ad una ‘economia circolare’ che è tuttavia un’altra formula magica che tende a nascondere la sostanziale impossibilità di un riciclaggio totale. Un’occhiata ai nostri contenitori di rifiuti differenziati ci confermerà che esiste anche l’entropia delle materie prime oltre che dell’energia. La prima cosa che dovrebbe fare, secondo me, il nostro ministro, nuovo di zecca, alla “transizione ecologica”, è spiegare agli italiani che dovremo affrontare un lungo e complesso percorso di cambiamento dei nostri modi di usare le risorse, di produrre i beni (che in realtà è solo trasformazione di quelle risorse), consumarle (che in realtà significa togliere loro l’utilità che avevamo creato nel produrli) e smaltire i rifiuti (che di nuovo significa solo deporli da qualche parte o ritrasformarli in qualcosa di utile, usando però dell’energia non recuperabile, dell’acqua e del lavoro). Spiegare cioè che non abbiamo una bacchetta magica per cambiare la nostra economia e i nostri stili di vita, senza che questo ci costi fatica e molte, molte, difficoltà. Come in ogni cambiamento vero avremo bisogno di ricerca, innovazione di prodotto e di processo, forte attenzione in ogni fase a ridurre sprechi e rifiuti, modifiche dei processi di distribuzione e vendita e delle abitudini di consumo. E ci servirà una enorme quantità di formazione tecnico scientifica dei nostri giovani e dei lavoratori dei settori che dovranno cambiare radicalmente, che per ora, come ho detto, mi sembra del tutto assente. Tutto questo facendo attenzione a non stressare troppo le nostre economie se non vogliamo che, come è spesso accaduto in passato, le persone finiscano per considerare le preoccupazioni ambientali come delle questioni da “radical-chic”. Come converrebbe allora muoversi per realizzare la transizione ecologica che, insieme a quella digitale, è il perno su cui il governo Draghi intende (e deve) incentrare il progetto di Recovery plan da presentare alla Commissione europea? Anzitutto darsi alcune priorità strategiche per cercare di ottenere dei risultati significativi nei tempi impartiti dagli accordi europei che sono piuttosto stretti. A mio avviso poiché ogni progresso dell’umanità è sempre stato trainato dalla disponibilità di maggiori e più duttili forme di energia e poiché oggi prevale l’obiettivo della lotta al cambiamento climatico, la transizione energetica non può che essere la prima priorità, con una decisa spinta alle energie rinnovabili, al risparmio e all’efficienza energetica. Il problema è che occorre decidere su quale mix energetico puntare (solare, eolico, geotermia, biocarburanti, idroelettrico, ecc.) e forse per un paese come il nostro si potrebbe aggiungere la ricerca di nuove opportunità legate allo sfruttamento del moto marino: alcune rinnovabili sono più adatte alla autoproduzione da parte di famiglie e imprese, altre devono essere orientate a produrre forme di energia più concentrata e a questo fine va sicuramente sviluppata tutta la filiera dell’idrogeno che ad oggi resta il principale vettore pulito per sostituire le fonti fossili. Non serve quindi solo spingere a fondo sulle rinnovabili, ma occorre una chiara visione strategica su come sostituire progressivamente le fonti fossili garantendo le quantità e le caratteristiche dell’energia necessarie a un paese sviluppato. E si dovrà coinvolgere da subito il mondo produttivo, che dovrà partecipare alle scelte e assumere il difficile compito di realizzare la transizione, e le famiglie, che dovranno affrontare investimenti consistenti e soprattutto disagi e complicazioni burocratiche. Si veda il caso del super bonus al 110% che stenta a decollare perché i tempi per le pratiche sono terrificanti. Senza una drastica, anzi violenta, semplificazione delle procedure, è difficile immaginare che un’intero paese possa avviarsi sull’arduo percorso che dovrebbe portarci alla sostenibilità della nostra economia. Più semplice è invece affrontare il secondo pilastro di una nuova politica energetica: accelerare drasticamente gli interventi di risparmio energetico con l’isolamento di abitazioni, uffici, scuole e stabilimenti e utilizzare l’energia in modo più efficiente. Però in entrambi i casi ci sono almeno due ostacoli: la disponibilità di materiali e attrezzature e di competenze tecniche in quantità sufficienti. In sintesi servono investimenti consistenti per aiutare le imprese ma anche un massiccio piano di formazione delle persone che dovranno realizzare la transizione: dal personale delle aziende produttrici dei materiali necessari (se non vogliamo importare quasi tutto), ai progettisti, agli installatori e ai manutentori. Occorre aiutare le aziende a mettere in opera tutta la filiera, se vogliamo che la svolta verde produca anche benessere e posti di lavoro, condizione indispensabile perché venga accolta con favore dalla popolazione. Immaginiamo che cosa succederebbe se la maggior parte del fabbisogno di impiantistica provenisse dall’estero, spiazzando e aziende italiane. Ho fatto l’esempio della transizione energetica, ma un’analisi di che cosa fare negli altri settori da guidare verso la transizione, ci mostrerebbe che i problemi da affrontare sono del tutto analoghi. L’adesione dei cittadini, la capacità di trasformazione del sistema produttivo, la formazione dei lavoratori delle aziende e di tutte le professioni scientifiche, tecniche e artigiane coinvolte e, last but not least, una radicale semplificazione amministrativa.

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