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La striscia di Gaza: una strettoia per Israele e il mondo

di Michele Corrado*



Ad oltre settanta giorni da quel tragico 7 ottobre è possibile, anche utilizzando solo fonti aperte, comprendere che cosa gli israeliani intendono realizzare nella Striscia di Gaza e come i palestinesi si difendono e gestiscono la situazione.

Prima, è bene però chiarire cosa significa una organizzazione terroristica e come essa possa operare per così lungo tempo in un territorio limitato come la Striscia. Le organizzazioni terroristiche per essere operative sul loro territorio devono contare su alcune condizioni di base imprescindibili: la disponibilità di fondi e sostegni logistici provenienti da attori esterni ed un appoggio incondizionato della popolazione all’interno della quale operano. Nel caso specifico vi sono poi altri due aspetti che condizionano lo scenario: l’altissima densità abitativa della Striscia e l’alta percentuale di territorio edificato che la caratterizza. Le organizzazioni terroristiche, inoltre, non riconoscono gli usi e costumi di guerra, ma al contrario praticano tutti quei comportamenti sanzionati dalle convenzioni in atto.

Le stesse modalità di condotta degli eventi del 7 ottobre e gli obiettivi che dovevano essere conseguiti, sono preclusi a qualsiasi reparto militare di uno stato riconosciuto internazionalmente. Almeno in linea teorica, come insegna purtroppo la storia. Per queste motivazioni ed in funzione del fatto che Israele manca di una profondità territoriale che gli consenta di poter assorbire attacchi ostili di quella natura, al fine di annullare il tipo di minaccia espressa da Hamas, se vuole sopravvivere, deve (ed è quello che sta facendo):

-    distruggere fisicamente i componenti Hamas;

-    sgomberare la Striscia di Gaza dai suoi abitanti che stanno pagando costi umani inenarrabili.

Per raggiungere questi obiettivi, considerate le limitate Forze disponibili in relazione al “terreno” dove si conduce l’azione, Israele non potendo effettuare una bonifica capillare, ha deciso di agire indirettamente con la distruzione, anche se in maniera non sistematica, degli abitati della Striscia in modo da costringere gli abitanti a lasciare le loro residenze, facendo in modo che, visto il tasso di distruzione delle stesse, sia poi in futuro impossibile il reinsediamento. Dura lex, sed lex secondo la giustizia unilaterale di Tel Aviv che ha già messo sotto terra ventimila palestinesi di Gaza .[1]

I componenti di Hamas, privi della popolazione all’interno della quale si mimetizzano ed operano, possono soltanto abbandonare anche loro quelle zone, od accettare il combattimento contro le Forze israeliane, ma privi del naturale contesto operativo. È il solito caso dell’acquario, se si vogliono prendere i pesci è necessario togliere l’acqua. Il risultato finale dovrà essere una Striscia di Gaza priva dei suoi abitanti ed impossibile per Hamas o altre formazioni terroristiche da utilizzare per i loro fini nel futuro.

Il punto debole di questa tattica messa in atto dagli israeliani è il dove gli abitanti della Striscia possano spostarsi. La ferocia barbarica con la quale Hamas ha condotto l’operazione del 7 ottobre ed il supporto della popolazione palestinese a questa organizzazione, ha spaventato i Paesi confinanti, in particolare l’Egitto, naturale sbocco per i rifugiati palestinesi ed i militanti di Hamas, per ovvie ragioni. Mettersi in casa una popolazione che negli ultimi decenni - complice anche la politica israeliana nella Striscia e in Cisgiordania - è stata manipolata, dimenticata dall'opinione pubblica internazionale, messa nelle condizioni di avere come unico scopo la distruzione dell'avversario-occupante, paese militarmente sempre vincente dalla sua costituzione nei confronti delle varie coalizioni arabe ed in possesso anche di armamenti nucleari, non rientra in nessuna visione politica presente o futura. L’enormità dell’azione di Hamas in territorio israeliano ha fatto comprendere ai Paesi arabi confinanti il pericolo rappresentato dalla popolazione palestinese della Striscia, inframmezzata con le strutture ed i militanti di Hamas. Un problema nel problema che ci dovrebbe portare a riflettere, come si è chiesto monsignor Pierbattista Pizzaballa, patriarca cattolico di Gerusalemme, "dove si è sbagliato".

Dunque, lo sforzo militare che Israele sta compiendo, lento ma inesorabile, anche se dispendioso e doloroso (si consideri la questione degli ostaggi e la riprovazione del consesso internazionale), dovrà portare alla risoluzione del problema rappresentato dalla minaccia espressa dalla Striscia di Gaza in maniera definitiva. Del resto, l'ottica israeliana è completamente diversa dalla nostra ed è parte costituente di quel Paese che, va sempre ricordato, è in uno stato di guerra dal giorno della sua costituzione ed esiste ancora solo grazie ai suoi risultati militari conseguiti nei confronti dei Paesi Arabi della regione e dei vari gruppi terroristici sviluppatisi negli anni, sempre contando sull'appoggio e sulle armi degli Stati Uniti. Ma è anche un'ottica che dal 1948 tende, inevitabilmente, a dimenticare le sopraffazioni violente commesse in nome del diritto all'esistenza. Semplificando: è il classico cane che si morde la coda.

Con tali premesse, pare al momento improbabile una qualsiasi possibilità di comporre in qualche modo il conflitto; sono le azioni sul terreno del 7 ottobre che hanno decretato questo stato di cose, insieme con le scelte dei vari governi Netanyahu. Saranno gli avvenimenti sulla Striscia che ci daranno la soluzione; come in tutti i precedenti conflitti.

*Col. in Ausiliaria Esercito Italiano


Note


[1] Al Consiglio di sicurezza dell'Onu è stato nuovamente rinviato il voto sulla risoluzione a Gaza. Nell'ultima bozza, ha affermato l'Afp, sarebbe stata eliminata la "fine immediata" de combattimenti. Resta, invece, la richiesta di misurare urgenti per scongiurare una catastrofe umanitaria.

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