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La pensione diventa europea, ma l’Italia sembra non accorgersene

di Emanuele Davide Ruffino


Oggi, 23 agosto entra ufficialmente in vigore il PEPP, acronimo di Prodotto Pensionistico Individuale Paneuropeo”, un nuovo strumento di previdenza complementare individuale, voluto dal Governo Draghi, finalizzato ad integrare la pensione per dare attuazione al regolamento europeo n. 1238/2019 sulla previdenza complementare in tutti i Paesi Ue.


Le novità offerte dal PEPP

Il PEPP è un fondo pensione integrativo simile a quelli esistenti, dove il soggetto sottoscrive un piano di accumulo individuale che consente di ottenere una rendita supplementare da affiancare a quella pubblica. La novità più consistente è che può essere sottoscritto in un Paese per poi essere completato in un altro, a seconda delle esigenze e degli spostamenti dei lavoratori. In pratica, ci si può spostare liberamente di residenza e fruire della rendita nel luogo di destinazione prescelto. Perdono così di importanza le politiche adottate dai singoli Paesi perché la pensione diventa sempre più un atto di responsabilità individuale: intanto la spesa pensionistica nel 2022, causa Covid e schizofrenie normative, in Italia scende al 15,7% del PIL (era del 17% nel 2020), aprendo così qualche spiraglio per le possibilità di riforma.


Il provvedimento risulta essere assolutamente in linea per accelerare e sostenere il processo d’integrazione europea e, nel contempo, si afferma come, al di là delle poco credibili promesse elettorali, il processo pensionistico procede verso parametri essenzialmente basati sul rapporto tra quanto versato con quanto fruito. In pratica il lavoratore sottoscrive un piano di accumulo individuale che consente di ottenere una rendita supplementare, perché nel resto d’Europa è chiara la necessità di differenziare le modalità di acquisire più forme previdenziali.


Tra illusioni e realtà

Il PEPP è un prodotto che viene fornito dalle compagnie di assicurazione, ma si caratterizza per la portabilità in tutti i Paesi dell’Unione Europea. Con esso si raggiunge quindi maggiore flessibilità e versatilità al piano di accumulo delle pensioni integrative: ci si può spostare liberamente di residenza e godere anche della rendita nel Paese di destinazione finale. Non è però possibile utilizzare il TFR per alimentare i versamenti, come invece può avvenire per alcuni fondi italiani.


L’invitare a non formulare promesse che non si potranno mantenere, non sembra ancora un messaggio vincente, rispetto alla promesse del tutto a tutti. Delle lusinghe elettorali sono pieni i giornali: i costi che queste produrranno sul sistema proprio non riescono invece ad interessare l’opinione pubblica (o almeno così crede una certa stampa).


Tecnicamente si può agire su più variabili al fine di raggiungere la sostenibilità del sistema: età anagrafica, speranza di vita media, contributi versati, limiti rappresentati da multipli del valore dell’assegno sociale (altrimenti lo Stato rischia di dover poi provvedere a una moltitudine di bisognosi). Algoritmi a costo zero sono assolutamente possibili, per lo meno per quei soggetti che vantano sufficienti contributi, lasciando alle politiche del welfare gli altri casi.


Le ipotesi di riforma sul tappeto

Sarebbe opportuno tralasciare le ipotesi a effetto, difficilmente sostenibili dal sistema: quota 41 costerebbe – dati Inps - più di 4 miliardi nel primo anno, per poi arrivare a superare la soglia dei 9 miliardi (per il reddito di cittadinanza però sono già spesi più di 20 miliardi e la voragine è destinata a continuare), mentre l’assegno minimo di 1000 euro per tredici mensilità rischierebbe di costare, a regime, più di 30 miliardi (oltre a rappresentare un pericoloso incentivo a non versare contributi che, per molti, porterebbe ad una pensione inferiore).


Tra le ipotesi sostenibili, con un costo nullo o di pochissimi miliardi di euro, si affacciano le soluzioni che prevedono un minimo contributivo (35/38 anni), un’età minima (62/64 anni) un importo minimo (1,5/2,2 volte l’assegno minimo). A queste condizioni si possono aggiungere modalità diverse di percezione, come ritardare la percezione della componente retributiva (proposta del presidente Inps Tridico) solo dopo aver raggiunto una determinata età (67 anni od oltre). Tutto il resto è solo propaganda elettorale, che però rischia di paralizzare la situazione e, di conseguenza, allontanare il processo di riforma (la mancanza di tavoli tecnici attivi, lascia infatti presagire che non vi sia una reale volontà di affrontare, con concretezza, l’argomento).


Pensionati e bacino elettorale


Le pensioni rappresentano un interessante bacino elettorale, maggiormente significativo, man mano si raggiunge la possibile età pensionabile. Nella fascia di età tra i 55 e i 65 anni si contano 9 milioni di cittadini, con una propensione al voto maggiore che in altre fasce, dove invece prevale l’astensionismo. Considerata l’importanza dell’argomento sarebbe doveroso che i partiti che si propongono di governare, non solo formulino proposte, ma soprattutto indichino quali risorse aggiungere (ammesso che sull’argomento si vogliano aggiungere risorse) se desiderano adeguare i parametri di sostenibilità che l’economia impone. Quello che risulta anomalo è che riforme a costo zero si possono già attuare, anticipando, così come già prevede la Legge Fornero, un sistema totalmente contributivo.


Seppur marginale per la sua diffusione nel breve termine, l’approvazione del PEPP impone di ragionare in una logica europea, in quanto i sistemi d’oltre Alpe non rappresentano solo più un termine di paragone, ma una realtà concorrenziale con cui bisognerà fare i conti non solo in termini di redditività, ma anche di affidabilità. Ma questi sono aspetti che dovranno attendere il superamento della tornata elettorale per essere affrontati, anche se la politica, quando la coperta è corta ed occorre gestirla con oculatezza, dovrebbe dire come vuole affrontare i problemi e non trovare appigli per rinviarli.





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