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La certezza del sacrificio del giudice Borsellino e l'incertezza della verità


di Michele Ruggiero

Il 19 luglio del 1992 in via D'Amelio a Palermo, Cosa nostra, cosa nelle mani dei sanguinari capi mafiosi Toto Riina e Bernardo Provenzano, mise fine alla vita del giudice Paolo Borsellino e agli agenti che lo difendevano, Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio) Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Con l'uccisione del giudice Borsellino, Cosa nostra mise in chiaro, qualora ve ne fosse stato ancora bisogno, che si riteneva Antistato a tutti gli effetti con le sue norme e regole in piena e continua attività. Guai a sfidarla.


Cinquantasei giorni prima, il suo nemico numero uno, il giudice Giovanni Falcone, era saltato in aria su cinquecento chili di tritolo piazzati in un cunicolo di scolo sotto il manto autostradale della Palermo-Mazara del Vallo all'altezza di Capaci. Con Falcone, Cosa nostra aveva spezzato altre quattro vite, quelle di Francesca Morvillo, magistrato, moglie di Giovanni Falcone, e degli uomini della scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo.


I giudici Borsellino e Falcone erano gli ultimi di una lunghissima lista di servitori dello Stato, magistrati, poliziotti, carabinieri, caduti per difendere lo Stato, e di politici, giornalisti, sindacalisti, imprenditori, semplici cittadini, uccisi perché davano senso allo Stato e alla convivenza civile che da esso deve derivare. Cifre impressionanti e sbalorditive. Da Wikipedia: "Le vittime di Cosa Nostra in Italia, accertate fino ai primi anni sessanta del '900, risultano essere circa 519, che superano il valore di 5.000 se compresi anche gli stessi mafiosi uccisi. Cosa nostra è attestata esistente fin dal 3 agosto 1838 in Sicilia, sulla base di una relazione del procuratore borbonico Pietro Calà Ulloa, ma le vittime di questa organizzazione mafiosa cominciarono ad essere documentate solo a partire dal 17 dicembre 1860, data dell'annessione della Sicilia al costituendo Regno d'Italia. L'elevato potenziale delittuoso raggiunto da Cosa nostra già in fase preunitaria è però dimostrato dall'attentato mafioso subito il 27 novembre 1859 da Salvatore Maniscalco, comandante della gendarmeria borbonica (in https://it.wikipedia.org/wiki/Vittime_di_Cosa_nostra_in_Italia ).


La domanda che ritorna così ineludibile a ogni anniversario del sacrificio dei giudici Falcone e Borsellino non cambia, rimane la stessa, ossessiva: lo Stato li ha difesi, mantenendo salda la dirittura morale, l'onesta e il senso di responsabilità che si deve a chi lo rappresenta? Trent'anni dopo, al netto della retorica, che pure ha valore intrinseco per conservare e diffondere capillarmente il primato dei valori, il dubbio continua a prendere il sopravvento.


Ed è un dubbio che diventa angoscia quando guardiamo alle immagini seguite all'esplosione di via D'Amelio, alla tragica parabola del giudice Paolo Borsellino con i suoi misteri (la sparizione della famosa agenda rossa) e la scoperta inaccettabile per le persone perbene di un magistrato lasciato solo per 56 giorni dalla morte del suo più caro amico, mentre in Sicilia arrivava il tritolo con cui imbottire la Fiat 126 utilizzata per l'attentato.

Una "spedizione" di cui fu l'ultimo a essere informato... Quasi un epitaffio al suo ruolo di agnello sacrificale, reso ancora più evidente dall'indifferenza con cui i suoi colleghi della Procura di Caltanissetta, incaricata di indagare sull'attentato di Capaci, accolsero la sua disponibilità a contribuire alla ricerca della verità.


Una verità che trent'anni dopo rimane latitante come quella dell'erede di Totò Riina e Bernardo Provenzano, Matteo Messina Denaro. Una verità nascosta sotto una coltre di depistaggi, di omertà e di manipolazioni, su cui grava sempre l'ombra della complicità di più apparati dello Stato che i cittadini onesti non meritano.





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