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L'EDITORIALE DELLA DOMENICA. Oggi la Pace è un atto rivoluzionario

Aggiornamento: 5 feb 2023

di Michele Ruggiero


Nel suo viaggio in Sud Sudan che si è concluso stamane, domenica 5 febbraio, Papa Francesco ha lanciato il suo reiterato appello contro la guerra che sconvolge e insanguina il più giovane stato del continente africano: "Questa terra non diventi un cimitero". Una frase quasi ignorata dai media. E se, come diceva Andreotti, "a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca", crediamo "volutamente ignorata" per la sua forza dirompente che potrebbe avere sui nostri vissuti in Europa, stretti e confusi da parole allineate verso una sola direzione, priva di alternative: quella della guerra che si consegna alla violenza delle armi, incarnata da chi si è impossessato, senza averne diritto, del marchio di difensore di un'Europa mai realmente minacciata, mai realmente aggredita, eppure oggi sostanzialmente in guerra, quando avrebbe avuto grandi spazi di manovra per mediare con l'obiettivo della pace. Perché di conquista si tratta, ogni qual volta ci si trova dinanzi a un nemico, aggressivo e potenzialmente pericoloso.

La ricerca della pace è anche lo studio delle ragioni stesse delle azioni (passate, presenti e future) dell'avversario. Ed è in assoluta malafede - autentici complici dei mercanti (di armi) nel Tempio - chi paragona la Russia di Putin alla Germania di Hitler, e l'apertura di un possibile dialogo tra le parti alla Conferenza di Monaco del 1938, che invece spianò la strada alla Seconda guerra mondiale. Il mondo è cambiato. E i rimescolamenti che si sono registrati dal 1945 in avanti sono stati impressionanti: la disgregazione dell'Impero Britannico e del colonialismo, la nascita e la fine della Guerra fredda, il peso dei paesi mediorientali, a tanto altro ancora. Dunque, lo scenario geopolitico è diverso. E' altro nella forza medesima delle alleanze militari, nell'assenza di fascismi all'interno dell'Europa e nella presenza di nuovi importanti attori mondiali. Schiacciare la storia sul presente, omettendo i cambiamenti e le trasformazioni avvenuti nel tempo, è soltanto fumo negli occhi, un fumo tossico che avvelena la percezione dei fatti reali e punta esclusivamente a piegare le emozioni su disegni precostituiti.

Le parole di Papa Francesco dunque risuonano forti per ridarci l'opportunità di comprendere in quale spirale ci siamo avvitati nel guardare alla guerra totale e nucleare come ad un evento irreversibile che si nutre di una visione crescente di morte, in cui i valori della pace sono in automatico esclusi e privi di forza trasformativa. Ma, proprio per questo motivo laici e credenti, uniti, non devono cedere al senso di isolamento che si prova dinanzi alla sensazione di impotenza del pensiero e della parola al servizio della pace. Le parole possono sembrare logore, esauste, inutili. Tuttavia occorre ribadirle con cocciutaggine, portarle in giro per il mondo con fierezza, scambiarle, perché sono diventate l'estremo atto rivoluzionario nell'essere l'unico antidoto al desiderio di guerra che pervade, sempre più invasivo, la nostra società. Questo è anche il sale della democrazia.

Letta in retrospettiva sui libri di scuola, la situazione è peggiore della vigilia della Grande Guerra. Almeno, all'epoca, nelle piazze italiane, mentre i socialdemocratici tedeschi votavano i crediti di guerra al Reichstag di Berlino nel 1914 (con lo sdoganamento dei carri Leopard il cancelliere Olaf Scholz, se non altro mostra una perfetta coerenza, non si sa quanto lucida, alla storia del suo partito), si misuravano pacifisti e interventisti, e i socialisti e i cattolici, anche se con motivazioni non identiche, ma simili nel rifiuto della partecipazione al massacro nelle trincee, non avevamo timore a manifestare le proprie idee e contrastare l'aggressività dei nazionalisti.

All'opposto, oggi in Occidente, chi prova a smarcarsi dall'ineluttabilità della carneficina, chi avanza riserve sull'invio di armi mai seguito da una proposta di pace, è guardato con la riprovazione che si riserva ai traditori e con il senso di fastidio dedicato ai reietti, come se il risparmio di vite umane fosse un elemento accessorio della convivenza civile. Prevale il pensiero che premia soltanto l'accettazione del bellicismo acritico. E c'è chi ostenta come una primizia il fatto che la politica italiana si sia posizionata (o sdraiata) sui cosiddetti valori occidentali, dimenticando che l'Italia, senza rinnegare la lealtà atlantica, dalla fine della Seconda guerra mondiale ha costruito un patrimonio di autentico pacifismo speso nella mediazione su più teatri internazionali di crisi per scongiurare la catastrofe, almeno, fino alla guerra dei Balcani, quando dalle nostre basi decollarono i bombardieri verso Belgrado.

Né può essere accettabile l'affermazione di chi sostiene che l'Italia deve continuare a inviare armi per rimanere nel cosiddetto "salotto buono" insieme con tedeschi, francesi e inglesi. Rimanere a fare che cosa? Affari, sulla pelle degli ucraini sotto le bombe? Ma se è "buono" rifornire Kiev di sempre più sofisticate armi, armi dietro cui si celano interessi giganteschi, commerci inqualificabili, tangenti condivise sottobanco con organizzazioni criminali, ingaggio di mercenari che tendenzialmente non stringono le mani in segno d'amicizia, che cosa è cattivo, allora, lavorare per la pace?

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