top of page

L'EDITORIALE DELLA DOMENICA. La giornata della disabilità per non lasciare nessuno indietro

di Guido Tallone


Oggi, 3 dicembre, è la Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità. La ricorrenza è stata istituita dalle Nazioni Unite nel 1992.per superare le dolorose discriminazioni e le ingiuste esclusioni sociali generate da ogni forma di disabilità. Nel 2006, la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità ha sottolineato l'esigenza di difendere e salvaguardare, anche attraverso una giornata a loro dedicata per riportare all'attenzione pubblica la qualità di vita e soprattutto dei diritti, i più negati, delle persone con disabilità. Temi letteralmente "soffocati", ignorati dal dibattito politico, in particolare, quello dell'affettività, come è stato osservato.[1] Guido Tallone, formatore, teologo, affronta la questione, sottolineando le contraddizione purtroppo emergenti e stridenti tra la politica delle buone intenzioni e della prassi quotidiana.

La proposta dell'Onu è nata per dare ad un giorno “speciale” la forza di irradiare per tutto l’anno attenzioni, sensibilità e programmazione politica in grado di costruire, da una parte, maggiore coesione sociale e, dall’altra, di frantumare, anno dopo anno, le infinite barriere e i troppi ostacoli che limitano (a volte in modo pesante) il rispetto dei diritti imprescindibili di ogni persona. Intenzione lodevole che non deve però chiuderci gli occhi sul fatto che troppo spesso anche questa Giornata è fortemente a rischio di trasformarsi in passerelle, in spot, in iniziative del tutto sganciate dal piano politico operativo e di selfi finalizzati a quella antipatica e inaccettabile ricerca di consenso elettorale che è disposta ad utilizzare tutto e tutti per una manciata di voti. Sgombrato il campo da pericolose strumentalizzazioni, restiamo nel solco del Progetto originario della Giornata e domandiamoci come questa può scalfire il nostro sistema di vita ordinario per immettere elementi di novità che migliorano non solo il nostro impianto di diritti umani, ma anche per scoprire che sostenere i diritti delle persone disabili è una condizione essenziale per sostenere i diritti umani, lo sviluppo sostenibile, la pace e la sicurezza. Ed utilizzo, per giustificare questa tesi, da una bella citazione del sociologo polacco Bauman, scomparso nel gennaio 2017:


“Quando ero studente, ho avuto un professore di antropologia il quale mi diceva (lo ricordo perfettamente) che gli antropologi sono arrivati a individuare gli albori della società umana grazie al ritrovamento di uno scheletro fossile, lo scheletro di una creatura umanoide invalida, che aveva una gamba spezzata; ma la gamba gli si era spezzata quando era un bambino, e lui era morto all’età di trent’anni. La conclusione dell’antropologo era semplice: lì doveva esserci stata una società umana, perché questo non sarebbe potuto accadere nel branco, dove una gamba spezzata pone fine alla vostra vita, poiché non potete più sostentarvi.

La società umana è diversa dal branco di animali perché qualcuno può sostenervi; è diversa perché è in grado di convivere con gli individui, tanto che storicamente la società umana potrebbe dirsi nata insieme con la compassione e con l’aver cura; qualità soltanto umane... Non riesco a pensare a niente che sia più importante di questo. È da qui che si deve cominciare.” (Zygmunt Bauman, Fiducia e paura nella città, pag. 78-79).


L’accoglienza del debole e del fragile ha dato l’avvio a quella società che da allora in poi si è incamminata alla ricerca della civiltà caratterizzata “dalla compassione e dall’aver cura” e senza la quale non si ha futuro.

Non dimentichiamo che il paradigma antropologico del libro della Genesi ci presenta in modo figurato ed efficace i rischi della scelta di non accogliere la parte debole che ci è accanto. Abele, il fratello di Caino, ha scritto nel nome la sua fragilità e inconsistenza (Abel in ebraico vuol dire caduco, fumo, fragile e, perciò, diverso in virtù della sua debolezza). Caino – il fratello maggiore – non riesce a riconciliarsi con questa diversità; non sopporta la sua debolezza e fragilità e lo porta oltre i margini della vita sociale, in campagna e lì alza la mano contro di lui. La narrazione è paradigma da non dimenticare: l’altro – ogni altro, ma soprattutto il fratello reso debole da fragilità o disabilità di ogni tipo – è il volto di colui che ti salva.

Alzare la mano contro di lui, portarlo oltre i margini della vita sociale, dimenticarlo, abbandonarlo e creare le condizioni perché lui prima viva male e poi muoia, significa preparare le premesse perché lo sviluppo sostenibile di cui tutti parlano si allontani sempre più e perché pace e sicurezza vengano aggredite e negate da conflitti che inevitabilmente si apriranno alla violenza.

La storia da cui proveniamo conferma questa lettura. Per secoli la convivenza è stata pensata solo ed esclusivamente per soggetti abili ed in grado di reggere le dure condizioni dell’esistenza umana. Chi era portatore di qualsiasi diversità (fisica, ma anche morale, culturale o perché straniero) era costretto a restare in disparte, a non disturbare e ad affidarsi alla “carità” di benefattori disposti ad aiutare i “bisognosi” a patto del loro restare oltre i margini del sistema sociale senza creare problemi alla cosiddetta “normalità”.

Carcere, manicomi e case di carità sono nate con queste finalità: per “chiudere” in strutture difese da un grande e insormontabile “muro” (e proprio per questo motivo chiamate “Istituzioni totali”) chi con la sola presenza generava disordine e, dunque, si presentava come elemento destabilizzante per l’intero ordinamento sociale. Lo stesso dicasi per i famosi orfanotrofi o case di correzione dai nomi, oggi, impronunciabili (dove ragazze e donne alle prese con qualsiasi forma di difficoltà sociale venivano definite “traviate”, mentre bambini e ragazzi senza famiglia erano considerati “derelitti”!).

Oggi molte cose sono cambiate e, per certi aspetti migliorate. Resta però ancora tanta strada da fare per passare dalle “buone intenzioni” alle “buone pratiche”. Soprattutto è importante imparare ad usare le “parole” corrette sia per declinare i principi dell’uguaglianza, della libertà, del rispetto reciproco, dell’integrazione e dell’inclusione sociale e sia per dotarsi degli strumenti “giusti” e idonei a perseguire i fini prefissati.

Provo a concretizzare il tutto con un esempio. Da anni molti Enti Locali portano avanti la scelta di dotarsi, all’interno della propria struttura amministrativa, di una figura denominata Disability Manager alla quale viene dato l’incarico di farsi garante di politiche mirate ad aiutare chi si trova alle prese con la disabilità.

Per quanto lodevole e da apprezzare l’intenzione astratta di questa opzione, va intanto evidenziato che se l’incarico che Sindaco e Giunta affidano a chi viene scelto per essere il Disability Manager della Città è a titolo gratuito e dunque non remunerato, rivela – ancora una volta – il fatto che per quanto riguarda le periferie della vita sociale e per le tante, troppe disabilità che rallentano il raggiungimento di standard di uguaglianza accettabili, non si è ancora disposti a spendere!

Secondo. Un servizio nel segno del volontario in questi contesti è inevitabilmente ridotto a pochissimi incontri all’anno con la Giunta rivelandosi perciò, da un lato, inconcludente e, dall’altro lato, pericoloso perché getta del fumo negli occhi della città con il titolo altisonante (Disabiliy Manager) quando di fatto il ruolo è una semplice “vetrina” con tanta apparenza e pochissima sostanza.

Terzo. La delega in bianco delle questioni riguardanti la disabilità ad un Disability Manager è altamente pericolosa anche perché crea l’autorizzazione, da parte degli amministratori, a non interessarsi degli aspetti inerenti la disabilità. In realtà, però, non esiste un solo settore della vita amministrativa che possa avvertirsi distante o estraneo nei confronti dei temi dell’inclusione sociale. Casa, scuola, formazione professionale, lavoro, salute, trasporti, viabilità, verde pubblico, servizi e politiche sociali…, sono tutti ambiti chiamati a confrontarsi quotidianamente sul come oggi venga realizzata quella politica delle pari opportunità chiamata a superare discriminazioni senza assistenzialismi, paternalismi o umilianti elemosine. Oltre al fatto che è anche di fondamentale importanza che i cittadini possano organizzarsi in associazioni e aggregazioni e progettare da protagonisti il come superare gli ostacoli che creano diseguaglianza.

Alla luce di queste premesse vale la pena mettere a fuoco che l’impegno per ridurre e per eliminare “tutte” le barriere che impediscono il pieno sviluppo dei diritti dei cittadini è da attuare, senza mai dimenticare, però, che la finalità ultima di tale impegno resta l’inclusione e l’integrazione sociale di tutti i cittadini al bene comune.

Molto meglio, a questo punto, che il Comune si doti, al posto di Disability Manager, di un Manager per l’inclusione sociale che sappia esprimere anche con il titolo il senso della sua presenza e delle politiche ad essa connesse. Un Manager per l’inclusione sociale incaricato di fare regia tra amministratori, Enti, Istituzioni pubbliche e private, società civile, realtà legate al mondo del lavoro, del tempo libero, dello sport e dell’associazionismo. Da questo coordinarsi insieme nascerà, in città e per la comunità tutta, il coraggio di attuare – insieme – quelle politiche in grado di “gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” (Art. 3 Cost. Italiana).

Un ultimo dato. I giornali di oggi ci dicono che in Piemonte ci sono 225.000 soggetti alle prese con la disabilità. E, secondo la Consulta per persone in difficoltà, sono 4.500 le mancate assunzioni nelle aziende pubbliche e private piemontesi. Persone con disabilità che per legge potrebbero e dovrebbero essere assunte ma che le imprese si rifiutano di assumere nonostante la multa che ne deriva.

Sanita, diritto alle cure, trasporti, scuola, accesso a servizi e aeree pubbliche, abitabilità e barriere fisiche, psicologiche, sociali ed economiche…, sono gli altri titoli della lunga fatica o corsa ad ostacoli che deve quotidianamente percorrere (e a volte arrendersi) chi cerca i suoi diritti ma trovandosi in condizioni di disabilità non riesce ad agganciarli e a vederli incollati sulla sua vita.

Perché nessuno resti indietro; perché le tanto attese e annunciate Pace, Sicurezza e Giustizia vengano raggiunge; perché Caino non vinca su Abele e perché i diritti non restino una dichiarazione astratta, ci è chiesto di fare in modo che domani, 4 dicembre – che chi odia le passerelle fine a se stesse e la retorica attende con ansia – arrivi portando con sé la voglia di futuro che passa dal coraggio del fare della compassione e della cura categorie politiche e non solo istanze emotive.

È da qui che si deve cominciare. È da qui che si deve ripartire.


Note




164 visualizzazioni0 commenti
bottom of page