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L'EDITORIALE DELLA DOMENICA. Dall'8 Settembre nasce il riscatto dell'Italia, estraneo alle "furbizie" storiche di questo governo

di Ferruccio Marengo


All'indomani del Giorno della Memoria e delle parole inequivocabili del Capo dello Stato, acquistano anche altro spessore i commenti e le osservazioni nati a seguito della pubblicazione del Calendario 2024 dell’Esercito. Interventi pubblici sfociati poi in polemiche che non possono essere derubricate tra le baruffe che animano frequentemente, e spesso inutilmente, la scena pubblica italiana. Del resto, l'argomento investe la più antica Forza della nostra Difesa. Che è la più numerosa e quella attivamente più presente sul territorio accanto alla popolazione civile in situazioni di estrema gravità (ordine pubblico, calamità, ecc.), con tutte le implicazioni che ciò comporta. Il che rende necessario trattare la questione con la massima sensibilità anche e soprattutto per non ingenerare fibrillazioni di parte, queste strumentalizzate a sua volta da chi si è intestato arbitrariamente e a dispetto degli accadimenti storici - parliamo del partito di destra per antonomasia, dal Msi agli eredi di Fratelli d'Italia - un rapporto privilegiato con le Forze Armate, sfruttandone dal Secondo Dopoguerra la tensione tra Est e Ovest, la collocazione internazionale del Paese e i protocolli segreti firmati con la Nato nel 1949. Se ne deduce dunque quanto la questione investa valori profondi che riguardano l’interpretazione che si dà della nostra storia e, con essa, le idee e i principi fondanti della nostra Repubblica.

In sintesi, il Calendario della discordia ha un titolo - ‘Per l’Italia sempre… prima e dopo l’8 settembre 1943’ – che afferma la continuità tra la storia del prima – il ventennio della dittatura fascista – e quella del dopo - la Resistenza e la Costituzione della Repubblica democratica. Quanto questa continuità sia frutto di un’interpretazione inaccettabile sul piano politico e insostenibile su quello storico l’ha evidenziato Marco Revelli sulle colonne de La Stampa, affermando con forza che c’è stato “un prima di violenza e sopraffazione, accanto a un alleato ignobile e criminale”, seguito da “un dopo di lotta per la libertà perduta”. Ignorare questa discontinuità “significa fare un’operazione di mistificazione storica e di propaganda politica da parte di chi a quel riscatto si è sempre opposto, prima con le armi, poi con la retorica nostalgica”.

Come si giustifica tale mistificazione storica? In risposta alle polemiche, il Ministro della Difesa Guido Crosetto (esponente di rilievo di Fratelli d'Italia) ha affermato il diritto di onorare la memoria dei soldati e degli ufficiali protagonisti di comportamenti eroici, indipendentemente dai vertici politici che li hanno guidati. Riemerge, in quest’affermazione, un elemento di ambiguità che connota da sempre l’atteggiamento della destra italiana. Un’ambiguità che discende dalla sovrapposizione di due tracce di memoria che non possono essere comparate: l’umana pietas verso i singoli che si sono sacrificati per un ideale (o anche soltanto per un malinteso e distorto senso di fedeltà e onore, comprensibile rispetto ai tempi e all'assenza di informazione sottoposta al vaglio di una feroce dittatura) e il giudizio storico e politico che di tale ideale si deve dare. Richiamare un principio di continuità a proposito di una nostra istituzione fondamentale - l’Esercito - prima e dopo l’8 settembre 1943, oltre che un errore storico, conduce alla riduzione, quando non all’annullamento, delle distinzioni di valore che si devono fare tra il prima, che ha portato alla rovina l’Italia (anche sul piano morale, di qui il richiamo necessario al Giorno della Memoria, alle Leggi razziali e alla persecuzione degli ebrei, venduti, depredati e spediti nei campi di concentramento da noi italiani), e il dopo, nel quale altri italiani si sono sacrificati per restituire indipendenza, libertà e dignità alla Patria.

E’ un giudizio storico e morale che va ben oltre la pietas verso i caduti. Ed è, nello stesso tempo, intrinsecamente e oggettivamente, un giudizio politico, poiché porta a una sorta di ‘normalizzazione’, a un ripianamento delle distinzioni e ottunde la memoria del ruolo nefasto che l’Italia fascista ha giocato, del suo carattere tirannico e guerrafondaio, del tradimento che ha consumato verso gli stessi militari, mandati cinicamente a morire in scontri impari nei deserti africani e nelle pianure gelate della Russia; e spiana così la strada a coloro che a tale regime guardano con nostalgia. Tralasciando la frase orrenda e vergognosa del Duce Benito Mussolini alla vigilia della dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940 sul bisogno di "un migliaia di morti da gettare sul tavolo della pace...".

E’ una ‘normalizzazione’ che si nasconde dietro il velo insidioso di un’idea astratta, metafisica – ma grave di conseguenze - di Patria, posta come riferimento primo e ultimo del vivere civile. Una Patria alla quale si devono fedeltà e sacrificio, prescindendo dalle situazioni di tempo e luogo, dalle istituzioni che la incarnano, dalle scelte che queste istituzioni compiono, dalle condizioni di esistenza che esse assicurano a chi in essa vive. La fedeltà alla Patria – alla terra dei Padri – diventa così il metro di giudizio prevalente, quando non unico, dei comportamenti individuali e collettivi, annullando ogni spazio di libertà, di partecipazione, di crescita. Il vero patriota è chi sa dire soltanto sì e, se è il caso, s’immola senza discutere: se lo fa e degno di essere onorato, indipendentemente dalle ragioni e dagli effetti delle sue azioni.

Anche quest’idea di Patria ha avuto un prima e un dopo. Le donne e gli uomini, militari e civili, che hanno condotto la Resistenza erano patrioti – e così si autodefinivano - amavano l’Italia, e proprio per questo si sono sacrificati per fondare una nuova Patria. Con l’8 settembre non è morta l’idea di Patria, si sono poste le basi per una Patria differente da quella fascista, che è stata faticosamente e dolorosamente costruita col sangue e i sacrifici di molti. All’ufficiale fascista che gli domanda se con loro ci sarebbe ancora stata l’Italia, il partigiano Johnny risponde: “Certamente. Un’altra Italia, un’Italia a modo nostro, ma sempre Italia. Per favore, non se ne preoccupi”.[1]

Il Ministro della Difesa, uomo nato in una delle culle della Resistenza, quel Cuneese che ha dato martiri e sopportato venti mesi di guerra partigiana, non si lasci coinvolgere da un gioco degli equivoci che ha lo scopo di annullare la distinzione tra il prima e il dopo, tra i disvalori dell’Italia fascista e i valori dell’Italia repubblicana, nata dalla lotta per la Liberazione. Renda omaggio ai caduti, ma non si presti a chi mira a mettere insieme il nero con il bianco per mascherare dietro un grigio indistinto i giudizi che la storia ha ormai emesso in modo definitivo.

Le occasioni non mancano. In Val Sangone, alle porte di Torino, la maggior parte delle formazioni partigiane sono state guidate da ufficiali dell’Esercito. Due di questi, poi insigniti della Medaglia d’oro al valor militare, hanno pagato questa loro scelta con la vita. Sono il Comandante Sergio de Vitis, che si è sacrificato per proteggere la ritirata della sua Brigata dopo la conquista di una polveriera; e il Comandante Felice Cordero di Pamparato, che, catturato, s’è rifiutato di passare con i fascisti e ha scelto di morire impiccato a un balcone di Giaveno insieme a tre suoi partigiani. Tra pochi mesi ci saranno le celebrazioni del 25 aprile. Salga in Valle a rendere omaggio a questi due eroi della Resistenza e a tutti i partigiani caduti, signor Ministro, attestando, con la sua presenza e la sua parola, che è ad essi che noi dobbiamo, per tanta parte, la democrazia, la libertà e l’indipendenza della nostra Patria.


Note

     

[1] Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, Einaudi, 1968, pag. 182

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