L'addio a Giuliano Montaldo, regista dal pensiero indipendente e coraggioso
Aggiornamento: 6 set 2023
di Michele Ruggiero
Il regista Giuliano Montaldo è morto oggi nella sua casa di Roma. Avrebbe compiuto 94 anni il prossimo 22 febbraio. Nel 1944, a soli 14 anni, entrò nelle file dei Gap genovesi.
Personalmente ho incontrato un paio di volte Giuliano Montaldo e sempre per ragioni professionali. Dunque, non ho aneddoti curiosi particolari, se non l'emozione di aver stretto la mano ad un grande protagonista del cinema italiano e le emozioni che a me, come a più generazioni, ha saputo trasmettere con le sue pellicole, con quel desiderio di offrire al suo pubblico il piacere di conoscere la storia.
Il mio ricordo più intenso è legato a una mattina a Mondovì, al Teatro monregalese (oggi chiuso, in attesa di una completa ristrutturazione) per la presentazione di un suo film, davanti ad una platea di studenti, giovani incuriositi da quel signore dal portamento distinto che faceva il baciamano alle loro insegnanti, portando con charme un Borsalino calcato alla maniera, almeno a me diede quell'impressione, dei protagonisti di noir francesi anni Cinquanta, accompagnato da una signora elegante, la moglie Vera, compagna di vita e di lavoro da lui definita "il mio migliore collaboratore".
Giuliano Montaldo non è stato il regista della Resistenza, anche se uno dei suoi più noti film racconta la lotta partigiana, ma ha saputo parlare di "resistenza" alle convenzioni, ai luoghi comuni, al rifiuto della prepotenza del potere nelle sue opere, una ventina di pellicole, attraverso personaggi di più epoche, personaggi controcorrente, mai convenzionali. Ed è stata la sua qualità migliore.
Nato a Genova, fece i suoi esordi nel cinema poco più che ventenne proprio nella sua città, chiamato dal regista Carlo Lizzani come aiuto regista per le riprese di "Achtung, Banditi!", culminate anche in una breve apparizione, una modesta particina. Ma quel film, girato in economia e osteggiato dal governo dell'epoca (VI governo De Gasperi) orientato a destra nei ministeri-chiave con Mario Scelba, ministro dell'Interno, Randolfo Pacciardi alla Difesa e Carlo Sforza al Dicastero degli Affari esteri, che aveva negato l'uso di armi disattivate, costringendo la produzione a commissionare copie di pistole, fucili e mitra in legno, aveva propiziato un'amicizia inossidabile con Carlo Lizzani.
E la Resistenza, ma al rovescio, segnò anche la sua regia d'esordio con le riprese di "Tiro al piccione", tratto dal romanzo autobiografico di Giose Rimanelli che descriveva il vissuto di un giovane che aveva aderito alla Repubblica di Salò. Fu un esordio coraggioso, che si volgeva alla rilettura di un passato scomodo dal punto di vista degli sconfitti. Il film presentato alla Mostra di Venezia nel 1961 fu subissato dalle riserve, nel migliore dei casi, sia da destra, sia da sinistra, per la sua volontà sincera di sottrarre alla ghetto emotivo il senso di patria nell'interpretazione di una generazione allevata nella retorica e nei dogmi del fascismo. Come avrebbe commentato anni dopo lo stesso Montaldo "il film trovò tutti impreparati, accigliati...". Più di ogni altro si ritrovò in quella condizione il Partito comunista italiano, che aveva in Mario Alicata il severo "sacerdote" di quella chiesa che ha sempre posto al primo posto l'egemonia culturale. Accusato di "ambiguità", Montaldo fu stroncato.
Un destino comune a molti anticipatori: una pagina dimenticata della storia del cinema italiano e della sofferenza che produsse in Montaldo, abbandonato anche dagli amici, "da quella parte", avrebbe raccontato il regista, "che avrebbe dovuto capire il film e sostenerlo". Ma, come spesso accade, quella pagina a rischio di imbarazzo, che raccontava anche l'emarginazione del regista per circa tre anni, sarebbe stata "strappata" dagli aedi, improvvisati e non, nel 1970 con il successo internazionale raggiunto da Giuliano Montaldo: "Sacco e Vanzetti", con l'indimenticabile colonna sonora di Joan Baez.
Al film, che raccontava il duplice omicidio commesso dalla giustizia americana condannando alla sedia elettrica i due anarchici italiani, seguirono "Giordano Bruno" nel 1973 e il suo film sulla Resistenza che, ancora con grande anticipo sui tempi, portava al centro della guerra di Liberazione anche lo spirito di sacrificio delle donne italiane: "L'Agnese va a morire" del 1976, tratto dal romanzo di Renata Viganò apparso nel 1949, con una insuperabile Ingrid Thulin, suggestiva interprete - grazie ad un superlativo doppiaggio - nel dare umanità al ruolo e una dimensione di coraggio credibile e priva di retorica.
Del resto, anni prima aveva raccontato con grande onestà intellettuale che soltanto sul finire degli anni Cinquanta e a partire dal Generale Della Rovere di Vittorio De Sica, c'era stato un ritorno ai temi della Resistenza, dopo un periodo di silenzio, un ritorno dovuto ad esordi coincidenti, tutti "figli della Resistenza" per età. E sottolineò che ogni regista si era misurato con quel tema (scomodo), dicendo 'lo faccio con un altro taglio' oppure 'lo faccio perché mi va' o rileggendo Bassani o rileggendo i campi di concentramento. Non è stato un fenomeno di emulazione, ma direi un fatto generazionale, un voler riproporre un discorso". Un discorso che andrebbe riproposto anche ai giorni nostri, allargando la sfera della dimensione resistenziale al rifiuto del conformismo e del pensiero unico.
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