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Israele-Gaza: alla ricerca di una disperata soluzione umanitaria

Aggiornamento: 29 ott 2023

di Vice


Il Segretario di Stato Antony Blinken è atterrato in Israele. Una presenza che somma la solidarietà all'appoggio politico e al sostegno militare degli Stati Uniti, "il migliore amico" dello Stato di Israele e, in questa fase drammatica della sua storia, anche "amico" del governo Netanyahu, verso il quale ha sempre prevalso una inimicizia epidermica, temperata dalla tolleranza per comprensibili ragioni di realpolitik (e interessi commisurati al peso della lobby ebraica in Usa) che si è imposta la presidenza Biden, seguita dall'establishment della Casa Bianca. Ma nella valigia di Blinken, insieme ai contratti di fornitura di nuove armi, vi è anche l'agenda in cui vi è trascritta a lettere cubitali la volontà di Washington di contenere la rappresaglia di Tel Aviv per favorire la mediazione come naturale evoluzione degli eventi verso la tregua con la definizione di una soluzione umanitaria per i due milioni e trecentomila abitanti nella Striscia di Gaza, dove i necrologi sono saliti a 1354 e i feriti a oltre 6 mila, secondo i dati del Ministero della sanità locale..

Il compito non si presenta semplice anche per una potenza come gli Stati Uniti. E non soltanto per la riluttanza di Israele a sospendere l'assedio a Gaza e le operazioni militari che da sabato scorso si susseguono alla ricerca dei depositi di missili e dei militanti di Hamas e delle organizzazioni islamiche che lo fiancheggiano da eliminare, ma per la difficoltà con le quali si devono misurare quei Paese che più altri hanno voce in capitolo, storica e politica, con i palestinesi. In primis l'Egitto del presidente Al Sisi, su cui pende la minaccia tutt'altro che remota di Israele di impedire con ogni mezzo il passaggio del confine a sud della Striscia di Gaza, il Valico di Rafah, a quei cittadini pronti a rischiare l'incertezza di una miserabile vita da profugo, pur di sfuggire a una agonia certa con le forze armate israeliane alla porta di casa. La disponibilità, comunque tutta da verificare, di accogliere masse di profughi palestinesi in Egitto, è ostacolata dalla preoccupazione personale di al Sisi che il prossimo anno dovrà affrontare le elezioni presidenziali in una condizione di grave instabilità economica del suo Paese schiacciato da due ordini di fattori: l'aumento vertiginoso dei prezzi al consumo e la svalutazione del pound egiziano[1].

In qualunque caso, spiragli di trattative sono affidati al cessate il fuoco di Hamas che ad oggi ha manifestato quale unica opzione praticabile quella di proseguire la guerra per "cancellare" Israele, che a sua volta ha come imperativo, e pre-condizione, quello di spazzare il movimento dalla faccia del terra. E alla domanda spontanea su chi possa premere su Hamas per curare il suo bulico desiderio di sangue, la risposta porta direttamente all'altro corno del problema per la sopravvivenza di Israele: l'Iran degli ayatollah sciiti, sponsor e finanziatore principale del movimento che si contrappone con il terrore al sistema poliziesco e militare esercitato da Tel Aviv sulla Striscia di Gaza e nelle aree sotto il suo controllo della Cisgiordania.

In altri termini, anche se non si hanno prove (ammesso che in questo caso siano necessarie) di un coinvolgimento iraniano nell'approvvigionamenti di missili, armi, supporti tecnologici e logistici, infiltrazioni e attacchi mortali che hanno colpito Israele (e umiliato i suoi servizi di intelligence, ma non le sue forze armate che ancora hanno mostrato una coesione e un valore inversamente proporzionali all'incapacità e opacità del primo ministro Netanyahu), è ipotizzabile un immediato arretramento di Hamas ai voleri dell'Iran, alla stregua di un rapporto servo e padrone?

E, in ultimo, come può essere letta una qualunque disponibilità al dialogo da un regime teocratico che gonfia le vele della guerra e del terrorismo chiedendo all'Islam di unirsi contro Israele? Non rimane che la carta turca di Erdogan (inviso a Netanyahu, che vivrebbe la mediazione come una sua personale umiliazione) con una mano tesa alla pace, mentre l'altra è perennemente insanguinata dalla repressione dei curdi e dal suo nazionalismo velenoso per la democrazia. Allucinante.

Oggi, il mondo si ritrova intrecciato, e scopre quanto sia letale per i suoi destini, nella perpetuazione con forme diverse dell'imperialismo degli Stati Uniti e della Russia post sovietica in continua competitività bellicosa tra di loro. Imperialismi mai al tramonto e supportati dall'altrettanto intramontabile vassallaggio degli stati satelliti. Imperialismi uniti nel comune denominatore delle peggiori nefandezze, nemici e divisi per espandere le proprie sfere di influenza secondo la machiavellica frase del "fine giustifica i mezzi". Poteri che sono una iattura per l'umanità, che figliano a propria immagine e somiglianza e con qualunque mezzo, naturale o per via eterologa, nel nome di una presunta superiorità etica e morale.

Gli effetti devastanti sono visibili sulla mappa delle centinaia di guerre glocali, cui si deve aggiungere l'ultima tra Israele ed Hamas. I distinguo poi su comportamenti e responsabilità di Stati Uniti e di Russia riflettono più contorsionismi di una sfibrante dialettica da talk show che rispondere ai fatti concreti e visibili sotto gli occhi di tutti. I primi usano come foglia di fico i valori del "mondo libero", "libero" soprattutto di essere sopraffatto dalla violenza che essi stessi esercitano sia a livello interno (discriminazioni razziali, iniquità, discutibile - per usare un eufemismo - redistribuzione della ricchezza), sia sul piano delle relazioni internazionali (Irak, Afghanistan, Libia, Siria, uso spregiudicato del potere dell'Alleanza Atlantica per fini diversi da quelli militari); la Russia di Putin guerreggia e fomenta inneggiando a un "nazionalismo diventato posizione dello Stato" verso l'obiettivo finale che è "la restaurazione dell'impero russo/sovietico [2].

Con queste premesse, anche senza predire l'olocausto, la catastrofe è dietro l'angolo. Del resto, se per qualunque conflitto, si è disposti immediatamente a cancellare dal vocabolario la parole pace, negare la possibilità del dialogo insieme allo stesso tavolo, che prospettiva vi potrà mai essere per i popoli della Terra?


Note


[2] Bengt Jangfeldt, L'idea russa, da Dostoevskij a Putin, Neri Pozza, 2022

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