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In ricordo di Giandomenico Picco, il diplomatico nell'ombra

di Germana Tappero Merlo


Ci sono incontri con persone che ti cambiano per sempre la percezione della vita e della professione. Uno scambio di veloci battute durante lunghe chiacchierate, oppure semplici riflessioni sul mestiere e l’ambiente che si condivide, e capisci che è necessario andare oltre, molto oltre quello che già si è imparato o si ha la presunzione di conoscere, anche se frutto di eccellenza, come un’ottima carriera universitaria. Comprendi che c’è parecchio altro da fare, da indagare, da recepire. E magari lo comprendi dalle persone più umili e schive, quelle che, nell’ombra, hanno smosso montagne e ottenuto l’inimmaginabile.

E’ stato questo il mio primo pensiero alla notizia della morte dell’ex diplomatico Giandomenico Picco, avvenuta il 10 marzo in una casa di cura negli Stati Uniti, dove si era stabilito da decenni e dove lo incontrai più volte già nel 1991, all’indomani della conclusione della dolorosa questione degli ostaggi occidentali detenuti dagli Hezbollah in Libano e che lo aveva visto protagonista. Io, esordiente analista di guerre e terrorismo della regione mediorientale presso un team di giuristi internazionali incaricati di un progetto di riforma dei Caschi Blu e lui, diplomatico di carriera presso le Nazioni Unite, assistente dell’allora Segretario Generale, Pérez de Cuéllar.


L'indimenticabile lezione a Torino nel 2004

Incontri a New York, dove entrambi risiedevamo, per scambi di opinioni ed analisi che, alla fine, mi avrebbero permesso di capire quell’intricato mondo del Vicino Oriente, fatto più di relazioni interpersonali e di stima reciproca, anche fra acerrimi nemici, che di relazioni fra Cancellerie di Stato e sedi diplomatiche. Ci saremmo incontrati di persona un’ultima volta, a Torino, nel 2004, in occasione di una sua lezione all’inaugurazione dell’anno accademico del Master in Peacekeeping Management della Facoltà di Scienze Politiche, quando già la sua carriera internazionale aveva preso altre strade dalla diplomazia. Ma per chi aveva a cuore formare personale civile e militare per affrontare le sfide alla sicurezza e alla pace mondiali, Picco e la sua incredibile capacità di negoziatore nel mare torbido e agitato delle relazioni internazionali era un potente faro di riferimento. E anche allora, il mediatore per vocazione Picco non deluse le aspettative dell’uditorio, parlando a tutti noi della sua esperienza in Afghanistan e dimostrandosi quel che era veramente, un fine tessitore diplomatico dal fiuto geopolitico eccezionale.

Nato a Flaibano (Udine) nel 1948, dopo gli studi universitari a Padova aveva perfezionato la sua preparazione in relazioni internazionali all’Università della California, Santa Barbara, nel 1972. In breve tempo e, come era solito dire, “quasi per capriccio”, entrò alle Nazioni Unite, ottenendo un lavoro, con grado di retribuzione professionale  più basso, presso il Dipartimento di Affari Politici e del Consiglio di Sicurezza. A poco a poco, e già a fine degli anni ’70, aveva ottenuto la reputazione di affidabile mediatore, un “capo risolutore di problemi”, stando alla definizione che gli diede de Cuéllar, avendo operato nella crisi fra Grecia e Turchia su Cipro, a cui seguirono altre, come quella tra Francia e Nuova Zelanda (1985), dopo che agenti segreti francesi, nel porto di Auckland, avevano affondato la nave Rainbow Warrior di Greenpeace mentre protestava contro i test nucleari francesi nel Pacifico, provocando la morte di un attivista. Picco sarebbe poi  stato incaricato quale principale funzionario Onu a negoziare la tregua, con infinite trattative, per porre fine alla sanguinosissima guerra fra Iran e Iraq durata praticamente tutti gli anni ’80.


Protagonista in Afghanistan e in Libano

Ma i suoi capolavori da mediatore sarebbero arrivati con l’Afghanistan (1989) e il Libano (1991): nel primo, lavorò a lungo per permettere il ritiro delle forze di occupazione sovietiche senza strascichi per la popolazione locale e il rischio di violenze in un paese destabilizzato e diviso. A Beirut, invece, il suo grande impegno  fra il diplomatico e l’agente operativo, tanto da venir definito dal suo mentore de Cuéllar, “soldato disarmato della diplomazia”. Nel turbolento Libano post guerra civile, il rapimento di stranieri per lo più occidentali da parte di Hezbollah era  una spina nel fianco di potenze quali gli Stati Uniti, Francia e Germania. Un paio di dozzine di cittadini americani, fra cui giornalisti (Terry Anderson, capo ufficio dell’Associated Press, detenuto dal 1985 al 1991, appunto) e alcuni operatori umanitari tedeschi erano stati  rapiti e non si conosceva la loro sorte, mentre la loro liberazione poggiava su una sola speranza, far leva sull’Iran, da poco orfano dell’Ayatollah Khomeini e già allora sponsor degli Hezbollah.

Tentativi di liberazione e mediazione da parte statunitense erano falliti miseramente: addirittura il funzionario anglicano, Terry Waite, era stato fatto prigioniero nel 1987 proprio mentre era  impegnato in una missione simile. La loro liberazione divenne l’obiettivo dominante di de Cuéllar, che incaricò Picco del delicato lavoro diplomatico. Tempi lontani in cui, a differenza da quelli odierni, le Nazioni Unite avevano ancora un ruolo e sicuramente anche personale decisamente motivato e preparato, in grado di affrontare al meglio le più urgenti ed esecrabili sfide al loro ruolo di consesso sovranazionale per la trattativa e la mediazione.

Giandomenico Picco, schivo, pragmatico e con la tenacia e la caparbietà tipiche dei friulani, che si manifestavano anche fisicamente nella sua robusta corporatura (era alto 1,95 cm e una straordinaria somiglianza con il suo conterraneo Dino Zoff), affrontò quella sfida rischiando la propria persona, come quando ritornò in Libano per trattare la liberazione di due ostaggi, nonostante l’avviso di funzionari iraniani che alcuni vertici dei terroristi avevano dichiarato di volerlo morto. In Picco però c’erano la fiducia nell’operatività ad oltranza (fece decine e decine di viaggi-spola fra Washington, Beirut e Teheran) e la speranza di raggiungere un buon risultato finale, manifestando un’incrollabile fiducia nel dialogo, oggi sempre più rara.


Giandomenico Picco in Libano in un elicottero dell’ONU.@lavoce di new york @

Premiato dal presidente americano G.H.W. Bush

Le minacce, infatti, non lo fermarono e affrontò la controparte, estremista, armata e soprattutto oltranzista nei propri obiettivi: come in uno scontato copione da spy fiction, Picco venne incappucciato, e – raccontò - “gettato in un bagagliaio di un’auto. Cosa che non auguro a nessuno, soprattutto se, come me, alto di statura (…) Sapevo che potevo essere portato via e sparire per sempre. Ma avevo investito un bel po’ di tempo, ed era mia convinzione che quello che facevo fosse giusto”. Questo affermava nel suo libro di  memorie Man without a Gun. One Diplomat’s Secret Struggle to Free Hostages, Fight Terrorism, and End a War (Un uomo disarmato. La storia segreta di un diplomatico per liberare ostaggi, combattere il terrorismo e terminare una guerra) che sembra ritrarre in toto i drammi della nostra più recente attualità, ad eccezione dell’incipit iniziale perché di “uomini disarmati”, nella diplomazia di questo nostro mondo, pare non esservi più alcuna traccia.

“A differenza della diplomazia del governo – affermava in un’intervista nel 1991 sul ruolo delle Nazioni Unite – non cerchiamo di segnare un punto politico a favore dell’uno o dell’altro. Vorremmo sviluppare una situazione in cui alla fine tutti vincono. E se davvero tutti vincono, allora abbiamo vinto tutti”. Idealità, forse, come la ricerca del dialogo per una tregua o per il cessate il fuoco che, oggi, in un mondo a pezzi che si fa la guerra, appaiono solo ed esclusivamente come un segno di debolezza, per cui da biasimare e da accantonare, con i tragici e sanguinosi risultati che conosciamo. Tuttavia, erano il fulcro su cui poggiava il Picco negoziatore, di chi vive la mediazione come una vera e propria vocazione. Insomma, un uomo di grande coraggio e coerenza, dotato di tanta curiosità ma anche e soprattutto di empatia, che lavorava per un organismo sovranazionale senza le disponibilità finanziare o il potere militare deterrente delle principali  potenze protagoniste delle relazioni mondiali, ma armato solo del proprio impegno, della sua neutralità e della sua dedizione per conquistare la libertà di innocenti.

A pochi giorni dalla liberazione dell’ultimo ostaggio americano, nel dicembre del 1991, il Presidente G.H.W. Bush gli conferì il premio presidenziale per quel servizio eccezionale. Nella citazione al premio si leggeva, “Il suo coraggio personale di fronte al pericolo e la sua dedizione alla missione rappresentano la migliore tradizione del servizio civile internazionale”. Sarebbero seguiti altri e più importanti riconoscimenti, ma purtroppo anche un rapido oblio, soprattutto in Italia.


Colpito dall'Alzheimer, curato dallo Stato del Connecticut

Rattrista ora la notizia della sua morte e di apprendere che, negli ultimi anni, perché malato di Alzheimer e bisognoso di cure e assistenza decisamente costose per la sanità privata americana, la famiglia ne abbia sofferto al punto da indurre la figlia di uno degli ostaggi liberati, Sulome Anderson, ad avviare una raccolta fondi dal titolo “Helping the man who saved my father”, affermando «I miei ultimi 30 anni di amore e sorrisi con mio padre non sarebbero stati possibili se non ci fosse stato Giandomenico Picco”. Anche l’Italia, seppur tardivamente, si mosse nel 2021 con la richiesta, promossa da politici friulani, per attivare a suo favore la legge Bacchelli di sostegno finanziario agli italiani di grande merito. L’ aiuto, invece e inaspettatamente, giunse dallo Stato del Connecticut, dove Picco risiedeva, assicurando al diplomatico che salvò tutte quelle vite americane, ogni cura necessaria.


Oggi, con un Vicino Oriente in fiamme, con il ritorno in auge di tormenti, come allora a Beirut, quali il terrorismo, gli ostaggi e le guerre, rimane  il ricordo della caparbietà e della coerenza di Giandomenico Picco e sperare di recuperare per le Nazioni Unite, gli Stati che vi partecipano e i diplomatici che vi lavorano, il  ruolo di supremo consesso per la mediazione.

“Il nostro compito – affermava Picco in un discorso a New York nel 2017 – era quello di colmare il divario, di nutrire la politica della coalizione in modo da porre fine allo spargimento di sangue (…). Va bene sottolineare il ruolo di buon ufficiale del Segretario Generale, ma poi tocca a ciascuno dei suoi rappresentanti allungare l’elastico il più possibile senza spezzarlo. Mi è piaciuto molto eseguire le mie idee. Non credo che sia davvero giusto pensare a qualcosa e poi chiedere a qualcun altro di farlo. Non è molto coraggioso".

Ed è certamente il coraggio nel perseguire sempre la mediazione, anche fra nemici irriducibili, quello che ormai manca a livello mondiale e questa lacuna trascina le crisi fra Stati e popoli verso il baratro di guerre sanguinose, infinite e, per questo, sempre più spesso vane.

 

 

 

 

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