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Coronavirus fase 2: l’effetto capanna

Aggiornamento: 21 apr 2023

di Stefano Cavalitto

Con l’avvento della cosiddetta “fase 2” si sono concretizzate ed infrante al tempo stesso speranze di libertà, di normalità e di ritorno al passato che tutti noi – chi più e chi meno – avevamo in serbo durante il periodo più rigido di lock-down. Lock-down che peraltro è ancora in parte attivo. Speranze concretizzate nel poter avere qualche finestra di libertà di movimento in più, di avere soprattutto una data, un orizzonte temporale che scandisca la nostra attesa e ci permetta di alimentare concretamente la speranza di “normalità”. Infrante nel senso che un po’ magicamente si sperava che tutta questa brutta vicenda sparisse o si ridimensionasse drasticamente tanto da permettere dinamiche sociali e in generale di vita più simili, se non identiche a quella tenute prima del 9 marzo scorso. Ebbene, questa fase 2 sembrerebbe essersi aperta con non poche discrasie. I viali più o meno affollati lungo i Navigli a Milano, i parchi frequentati copiosamente a Torino, tanto per citare due esempi, ci parlano di una reazione, una spinta re-attiva a saltare in avanti verso una dinamicità negata dallo stare chiusi in casa, dal distanziamento sociale vissuto almeno da alcuni come un severo, troppo severo restringimento delle libertà individuali, tanto da evocare modalità dittatoriali. La fuga in avanti, la “fuga nella guarigione”, secondo un gergo di stampo psicologico, sembra aver preso in parte il sopravvento. Accanto a ciò tuttavia sentiamo di registrare una tendenza difforme, anzi quasi opposta. La Sip, acronimo che in questo caso non sta per la progenitrice di Tim/Telecom Italia e neanche per chi subentrò alla Stipel (per i più nostalgici), ma per Società Italiana di Psichiatria ha parlato recentemente di “sindrome della capanna”. In che cosa consisterebbe tale sindrome? Ricordiamo che per sindrome non intendiamo una patologia tout court, ma piuttosto un insieme di sintomi e segni clinici al di là della loro eziologia. Quali sarebbero dunque questi segni clinici? Sfruttando l’immagine simbolica o anche solo metaforica della capanna, sono quei fenomeni che associamo alla difficoltà di affrontare gli stili di vita precedenti, privilegiando lo stare, nonostante tutto, al riparo delle proprie mura domestiche, al riparo nella propria capanna… L’ansia di non riuscire a tenere i ritmi precedenti al lock-down, le preoccupazioni pervasive rispetto al proprio lavoro ed alla situazione economica in generale che danno origine a sbalzi di umore, la scarsa fiducia nel fatto che effettivamente le cose da un punto di vista epidemiologico siano migliorate o possano migliorare. Questo ventaglio di segni quindi potrebbero (il condizionale è più che d’obbligo) trasformarsi in disturbi della sfera dell’adattamento ed in psicopatologie più o meno esplicite. Tempo circolare / Tempo lineare Tempo mitico / Tempo storico Tendenzialmente abbiamo due modalità di considerare lo scorrere del tempo: una che lo considera un fluire lineare, con un prima ed un dopo ben distinto come una linea, appunto, che si svolge e punta verso l’infinito. In questa accezione, il tempo non potrà mai presentare un momento uguale a se stesso, la successione dei punti della linea si susseguiranno senza mai potersi ripetere. Un fluire indirizzato e mai ricorsivo. Questa è la modalità con cui principalmente noi oggi, facendo riferimento al mondo occidentale e secolarizzato, concepiamo il tempo: una progressione di eventi che generano una storia, la storia. Esiste tuttavia un’altra concezione del tempo, potremmo dire più “arcaica”, ma anche, ad esempio, più affine a certe visioni antropologiche e filosofiche come quella di matrice orientale tradizionale, che concepisce il tempo, quantomeno anche, in modo circolare. Lo scorrere del tempo è in realtà considerato inserito in una circolarità, in una ricorsività che tende a ripresentarsi come susseguirsi di “ere” (yuga in sanscrito, che potremmo tradurre con “età del mondo”). Come periodi che ripetono caratteristiche analoghe. Per estensione, soprattutto nel linguaggio antropologico e di storia delle religioni, ciò viene anche considerato come una concezione del tempo “fuori dal tempo”, fuori dalla storia: il tempo mitico, inteso come tempo sempre uguale a se stesso ed immancabilmente ricorsivo. E’ chiaro, ora, che poter avere a che fare con “il mito” dal punto di vista delle nostra contemporaneità non vuol dire certo solo avere a che fare con storielle più o meno strampalate, deliranti, irreali e primitive, nella loro accezione svalutante; vuole dire anche poter entrare in contatto con temi esistenziali condivisi dall’umanità (o da parte di essa, quella che genera quel particolare mito) ed è per questo che ci riguardano in qualche modo tutti. Temi con cui in un modo o nell’altro abbiamo a che fare nel nostro cammino di esseri umani: amore, morte, violenza, menzogna, speranza, vita. È questo, appunto, il tempo mitico, che si presenta sempre uguale a se stesso…. Analogamente, tuttavia, rimanere imprigionati nel mito e ripeterlo adesivamente significa anche non evolversi. Rimanere nel tempo mitico, nel tempo-non tempo è come, metaforicamente, evitare di “nascere” al mondo, di nascere alla storia. Tale condizione di immutabilità, se ci pensiamo, può anche essere in un certo senso rassicurante: non ci sarà novità, nulla potrà accadere che non sia già scritto, se non previsto (ed illusoriamente controllabile). In altri termini è ciò che ci succede, in misura ovviamente parcellizzata, quando facciamo fatica a cambiare qualcosa di noi e della nostra vita, ciò che in linguaggio psicologico viene chiamata resistenza al cambiamento. Simbolicamente tutto ciò ci rimanda all’immagine del ventre materno, alla vita prima della vita, sicuramente piena di potenzialità, ma in effetti solo tali. Ecco la nostra “capanna”. Un luogo rassicurante, necessario, funzionale allo sviluppo della vita, ma se inflazionato anche la prigione della “vita”. Il balzo fuori, ben inteso, nella sufficiente sicurezza, è la conditio sine qua non allo sviluppo della storia, della nostra storia. Tornando alla cosiddetta sindrome citata in apertura, cosa possiamo dire? La difficoltà ad uscire, a tornare alle dinamiche e ai ritmi di un tempo (se ci pensiamo solo due mesi addietro, non anni) può essere sicuramente segnale di un disagio che ha bisogno di essere lenito, curato in qualche caso; ma se leggiamo la cosa non in un ottica meramente educativa, pedagogica, di restitutio ad integrum di ciò che c’era prima e proviamo a dare una lettura dinamica, se non simbolica della cosa, credo che sia non così estraneo a molti che quantomeno alcune dinamiche del prima, così tanto sane poi non lo fossero. E tali resistenze al cambiamento, più che resistenze ad andare avanti potrebbero anche essere lette come resistenze a tornare indietro, resistenze ad un prima che potrebbe essere effettivamente bisognoso di cambiamento.

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