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Convivere e sopravvivere alle malattie neurodegenerative

di Emanuele Davide Ruffino e Germana Zollesi


I fatti di cronaca riportano situazioni estreme dove i soggetti sono costretti a convivere con patologie in grado di sconvolgere la vita di una persona o dei suoi cari, in particolare quelle neurodegenerative, in primis il morbo di Alzheimer e il Parkinson.

Il fenomeno è sempre stato presente ma, dopo la pandemia, i casi si susseguono con maggiore intensità. Forse siamo diventati psicologicamente più fragili e non reggiamo più alle prove che la vita ci impone oppure la volontà di curare certe malattie, senza considerare i contesto in cui il paziente è costretto a vivere, porta ad esasperazioni non più tollerabili, né dai singoli, né dal sistema.

Le famiglie sono numericamente sempre più piccole e più deboli e non riescono più a soddisfare quello che dalla preistoria ad oggi è stato un suo compito fondamentale: prendersi cura di tutti i suoi componenti. Gli anziani nelle società rurali ricoprivano quasi sempre dei ruoli attivi, sia svolgendo lavori specifici, sia assolvendo al ruolo di organizzatore, di competenza del capo famiglia. Nel caso delle malattie cronico-degenerative il problema si complica ulteriormente in quanto ad occuparsi del paziente non è più un nucleo numeroso, ma, se va bene, un'unica persona che a volte può non reggere l’impatto emotivo, specie se questo si protrae nel tempo. Se poi il caregiver si ammala anche lui (specie se apprende di essere vicino alla morte e, quindi, non potere più accudire il suo congiunto), o semplicemente si rende conto di non reggere, la situazione si esaspera con conseguenze imprevedibili.

Le strutture pubbliche e il volontariato hanno spesso supportato e supplito all’impossibilità di alcune famiglie di provvedere ai loro cari. A Torino da più di un secolo opera il Regio Spedale di Carità, noto con il nome di “Poveri vecchi” e molti altri istituti pubblici e privati, ma il problema è ben lungi dall’essere risolto. Con la crescita della vita media sarà inevitabile prevedere ulteriori stanziamenti verso il settore, ma la sola crescita dei fondi dedicati, non potrà da sola soddisfare tutte le richieste (che a volte degenerano in pretese e poi in violenze sempre più frequenti nei confronti degli incolpevoli operatori sanitari).

La sanità è chiamata a guarire, ma quando non riesce, viene chiamata a cogestire le situazioni in cui il soggetto si viene a trovare, in alcuni casi, prendendosene totalmente carico, oppure offrendo supporti in base alle esigenze, ma i casi di cronaca evidenziano come, nonostante la crescita professionale degli operatori, gil numero di situazioni fuori controllo si moltiplica. La casistica indubbiamente si evolve e si amplia e una certa forma di medicina difensiva tende a stilare protocolli non più come linee guida per una corretta attuazione delle conoscenze mediche, ma come giustificazione di fronte ad eventuali contestazioni. Al paziente deve essere somministrato quello che risulta maggiormente utile al suo stato (non quello che al sistema fa comodo, o semplicemente in quel momento dispone), avendo coscienza che le condizioni di un paziente cronico-degenerativo mutano continuamente.

Se a livello di singolo caso occorre analizzare le condizioni specifiche, a livello generale diventa sempre più indispensabile verificare come si imposta il sistema atto a sostenere le attività assistenziali. Le politiche del welfare avevano ipotizzato una presa in carico dei soggetti in difficoltà, situazione difficilmente sostenibile oggi sia per ragioni economico-finanziarie, che per ragioni demografiche. E così si sono andate a creare un’infinità di soluzioni, alcune razionali e qualificanti, altre no.

La maggioranza delle persone con gravi patologie cronico-degenerative, non potendo più fare affidamento sulla famiglia (ammesso che ne abbiano ancora una) abbisogna di personale che si prenda cura di loro. Ma come per gli asset famigliari, anche la società non è più in grado di soddisfare tutte le situazioni e ricorre, per le cure, sempre più a personale extracomunitario, dove si ritrovano professionalità di tutto rispetto e con molto calore umano.

In questo scenario diventa indispensabile approfondire le conoscenze organizzative e le analisi marginalistiche volte a individuare gli interventi di maggiore efficacia per garantire una qualità di vita dignitosa anche a chi si ritrova in condizioni di salute compromessa. I drammi umani che la cronaca segnala invitano a prestare maggiore attenzione a queste problematiche perché le situazioni più disperate derivano da realtà sconosciute al sistema dove il disagio cresce fino al punto di ritenere l’uccisione del malato e/o il suicidio l’unica via di uscita dalla disperazione.

Offrire un’alternativa a queste persone non è facile, in quanto non accettano e non sopportano lo status in cui si sono venute a trovare: sicuramente i sistemi di supporto, pubblici, privati e no profit devono essere ulteriormente potenziati, ma è anche il concetto di dolore, sia fisico che psichico, che deve essere rivisto nella nostra società, se non ci si vuole rammaricare quando succede una disgrazia, ben sapendo che questa può ripetersi.

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