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Antisemitismo e il linguaggio della politica

Aggiornamento: 13 apr 2023

di Osvaldo Napoli

In una settimana importante come quella dedicata “alla memoria” nella sua data simbolo del 27 gennaio, si sono registrati in Piemonte tre episodi che si riconducono all’antisemitismo, all’intolleranza nei confronti degli ebrei e, di riflesso, ad una forma strisciante e pervasiva di negazionismo della Shoah, del genocidio di 6 milioni di persone nei campi di sterminio. Bambini, donne e uomini appartenenti al popolo ebraico, ma non soltanto: erano zingari, omosessuali, dissidenti politici, prigionieri di guerra considerati untermensch, cioè sub-umani nella definizione nazista. Le stesse scritte offensive apparse a Mondovì e a Torino, la più recente ieri, un autoadesivo attaccato sulla porta di casa di una donna figlia di un partigiano con la lugubre locuzione “Sieg Heil”, saluto alla vittoria nell’espressione delle SS, della Wermacht (l’esercito tedesco) e dei fanatici cultori di Hitler, sono anche un volgare ma continuo richiamo al totalitarismo omicida che prova pericolosamente a calarsi – una storia che si ripete – nella zona grigia dell’opinione pubblica. Non a caso, scopriamo che per un terzo degli italiani – a grandi linee, circa 20 milioni – il genocidio del popolo ebraico o è esagerato nei numeri o addirittura non c’è mai stato. Il che può sorprendere soltanto gli ingenui o coloro che osservano acriticamente l’impoverimento culturale diffuso nel nostro Paese (un impoverimento trasversale, non collegabile necessariamente alla posizione sociale o al censo), in cui la Storia e la Geografia sono diventate le “cenerentole” dei programmi scolastici, con tutte le implicazioni negative più che evidenti. Leggere però, nell’indagine di Eurispes, che per il 60% degli italiani dietro il risorgente antisemitismo c’è il linguaggio violento, quando non intriso d’odio della politica è qualcosa su cui tutti dobbiamo fermarci a riflettere. Nella stessa indagine Eurispes c’è una percentuale elevata di italiani che circoscrive l’antisemitismo a una serie di singoli episodi ma nega l’esistenza del fenomeno. La “banalizzazione del male” operata dal nazismo nella definizione offerta agli inizi degli anni Sessanta (60 anni fa…) da Hanna Arendt, e dal fascismo con le leggi razziali del 1938, infatti, è qualcosa tuttora presente nel quotidiano di un numero elevato di persone che si presenta sotto forme diverse. Non soltanto in Italia, non lo si nega, ma è legittimo e plausibile supporre che a questo contribuiscano il lessico, gesti, esasperazioni, contrapposizioni, spettacolarizzazione della politica e lo stesso corporeo dei politici. In altri termini, a costo di apparire un “conservatore”, non esito a dire che “l’abito fa il monaco” laddove anche educazione e garbo sono le cifre portanti di un modo di interpretare i rapporti politici e dunque, il nostro essere quotidiano. La politica ha grandi responsabilità e deve ora, in una fase critica non soltanto sul piano economico per la collettività, assumersi nuove, quanto antiche responsabilità. E lo deve fare riprendendo a fare chiarezza su principi che non sono negoziabili. Il valore della libertà, della tolleranza e il ripudio dei totalitarismi è tra questi.

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