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Alzheimer, una questione di “cuore”

Aggiornamento: 4 gen 2023

di Michele Ruggiero


Nel riproporre un nuovo numero de La Porta di Vetro dedicato all’annuale incontro coi familiari dei malati di Alzheimer organizzato dal dottor Fausto Fantò e dall’Ospedale San Luigi Gonzaga di Orbassano, mi sono interrogato sui rischi d’incorrere nella ripetitività anche caduca delle riflessioni, e di non saper trovare le parole giuste, affrontando un argomento su cui non è permesso diffondere retorica. Ce lo rammentano i dati. In Italia, secondo articoli recenti (www.repubblica.it, www.agensir.it), i malati di Alzheimer sono oltre 600 mila, cioè l’1 per cento della popolazione, ma le persone affette da demenze di vario genere sono 1 milione e 241 mila. E le previsioni, a tempi ravvicinati, secondo l’Istat, sono quanto mai fosche. Come quelle per il nostro pianeta, su cui ogni tre secondi una persona sviluppa una forma di demenza, di cui l’Alzheimer rappresenta la forma più frequente: ne soffre il 60-70 per cento di tutti i soggetti malati, per un totale di 50 mi- lioni di individui nel mondo, in prevalenza donne. L’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha stimato che queste cifre sono destinate a triplicarsi entro il 2050, trattandosi di una malattia tipicamente associata all’invecchia- mento. Un’esplosione patologica inarrestabile, che porterà, se restringiamo lo sguardo al nostro Paese, entrato da alcuni decenni nella spirale della senilità dominante a causa del calo demografico, ad un effetto altrettanto dirompente: quello dei costi sanitari, destinato a schiacciare il già traballante welfare. I numeri proposti dall’Istituto di Statistica, l’Istat, sono inequivocabili: in Italia, nel 2018, l’età media della popolazione era di 44,7 anni (48,3 in Liguria, la regione più anziana in assoluto), la più alta mai registrata. Nel 2017 gli over 65 rappresentavano il 35 per cento della popolazione italiana totale e il 30 per cento di quella europea, contro il 22,5 per cento di vent’anni prima. La lon- gevità ne è l’origine: per chi nasce nel Bel Paese, la speranza di vita è di 83,4 anni, seconda soltanto a quella della Spagna (83,5). Non deve stupire se con queste cifre si sia raddoppiato il numero dei centenari nell’ultimo decennio. E non deve apparire ironico se, con queste stesse cifre, si sorride al refrain di chi stuzzica gli umori primitivi più grevi ed egoisti della nostra popolazione suonando il piffero di “prima gli italiani”, incitamento perverso ad una politica desolidale contro i migranti. “Prima” per che cosa? Forse, per andare in giro con il bastone accompagnati dalla badante, in un’Italia che nel 2065, secondo le proiezioni, sarà nel frattempo passata dagli attuali 60 a 54 milioni di abitanti? Scenario non incoraggiante per chi crede nel nostro Paese, in cui già oggi – non domani – tre milioni di cittadini sono direttamente o indirettamente coinvolti nell’assistenza ai malati con demenze. Fissati i punti cardinali non negoziabili della questione, seria, la cronaca ci sposta dall’algidità delle cifre per trasferirci in una dimensione di dialogo, proprio così, con l’Alzheimer. Perché se il titolo del convegno è “una questione di… cuore”, come non potrebbe accelerare il battito dei nostri cuori la notizia di Anna che sposa Pasquale, a fine settembre, storia con i fiori d’arancio per due anziani entrambi ospiti di una struttura sanitaria di Napoli, ma entrambi costretti a vivere nel vuoto pneumatico della demenza. È l’amore che batte l’Alzheimer, è stato scritto con la giusta carica di enfasi. Almeno per un giorno, è stato così. Negli altri, sarà la resistenza collettiva, che vede ora in Anna e Pasquale un simbolo di speranza, a contrastare la malattia e a richiamare tutti noi al dovere di ricordare che i malati di Alzheimer non sono individui diversamente sani, ma individui che ricordano al mondo il senso della sua stessa fragilità. Quando si parla del morbo di Alzheimer, una lettura utile può arrivare dalla pagina web dell’utile Alzheimer’s Association (www.alz.org). Nel sito, vi si elencano i dieci sintomi che denunciano le prime avvisaglie della malattia. Essi vanno dalla perdita di memoria alla difficoltà di completare operazio- ni familiari o casalinghe anche banali, all’improvvisa incapacità di ricordare una data o confondersi sui luoghi, all’imbarazzante situazione di bloccarsi nel mezzo di una conversazione o di non trovare la parola appropriata, né di saperla scrivere, al disagio, che diventa sociale, nel dimenticare oggetti personali e accusare terzi di furto e, all’opposto, al confondere o perdere il senso del valore della propria immagine e del denaro con gravi ricadute e ripercussioni nel quotidiano, fino a forme di incipiente apatia nel lavoro e nell’attività ludica, con progressive gravi conseguenze sull’umore che si declinano nella depressione, nell’ansia, nel sospetto verso l’esterno. Paradossalmente, però, più ci si avvicina a scoprire i guasti prodotti dalla patologia sull’individuo, più ci si allontana da chi deve e dovrà rimanere accanto al malato e perché non potrà fare a meno di seguirlo. S’intreccia così una sorta di rimozione prima individuale, poi collettiva e sociale, delle risposte nell’assistenza che impone – verbo non usato a caso – il morbo di Alzheimer, fino a trasformare il caregi- ver in una figura astratta e, in ultimo, indecifrabile, esattamente come lo è la malattia, la cui capacità è quella di sconvolgere violentemente il quotidiano. È sconvolgente, infatti, scoprire in una persona cara la perdita della memoria, che la rende dipendente, alla mercé del tempo e dello spazio, quanto scoprire a un tempo, in chi l’accudisce, i propri limiti e inadeguatezze umane, inevitabili dinanzi a qualcosa cui non si è preparati, che ti si para di fronte anche con cattiveria sconosciuta. Una doppia violenza, dunque, che appartiene alla nostra sfera più intima su cui per pudore si tace, acuendo così il malessere profondo dell’impotenza individuale, cui la società, un insieme enorme, complesso e complicato, è costretta ad affrontare con strumenti contingentati dalle esigenze dell’economia e della politica, e da paure culturali. La paura di che cosa potremmo diventare ed essere in un mondo che assicura la longevità a prezzi, in alcuni casi, però, insopportabili.


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