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Stefano Marengo

"Vietare" per non cambiare: la politica su Gaza del gattopardo Usa

Aggiornamento: 23 lug

di Stefano Marengo


No, gli Stati Uniti in Consiglio di Sicurezza non hanno chiesto il cessate il fuoco a Gaza. Come hanno fatto sottolineato gli ambasciatori di Cina e Russia, che hanno posto il veto alla proposta di Washington, gli USA nel loro documento hanno unicamente esortato le Nazioni Unite a determinare l'imperativo di un cessate il fuoco immediato e duraturo. Una formulazione semanticamente ambigua, distantissima dalla chiarezza con cui altre proposte di risoluzione, tutte fatte naufragare dagli Stati Uniti nei mesi scorsi, avevano tentato di porre fine al massacro nella Striscia di Gaza. Sottigliezze linguistiche, si dirà, ma il punto è che in sede politico-diplomatica la trasparenza delle parole, che traduce la trasparenza dei propositi, può fare la differenza tra guerra e pace.

La questione non è di pura forma, ma di sostanza.

Così come è di sostanza il fatto che gli USA abbiano voluto condizionare gli “sforzi diplomatici per assicurare il cessate il fuoco” al rilascio degli ostaggi israeliani ancora detenuti da Hamas. A questo proposito, l’ambasciatrice guyanese Carolyn Rodrigues-Birkett è stata netta: “Due torti non fanno una ragione e il popolo palestinese non dovrebbe essere punito collettivamente e tenuto in ostaggio per i crimini di altri”. Dopo cinque mesi e mezzo di bombardamenti, con oltre 32mila palestinesi uccisi, 70mila feriti e 10mila dispersi, e con l’intera popolazione di Gaza ridotta alla fame, nessuna condizione dovrebbe essere posta a un cessate il fuoco. Al contrario, far tacere le armi è oggi più che mai il prerequisito non solo per garantire aiuti umanitari urgenti alla popolazione palestinese, ma anche per la liberazione in sicurezza degli ostaggi israeliani. Il Segretario Generale dell'Onu, Antonio Guterres, poche ore fa ha nuovamente richiesto di sospendere le operazioni militari e ha dichiarato che le file di camion fermi sono "un oltraggio morale". Per tutta risposta, Israele ha affermato che con lui (Guterres) "l'Onu è antisemita".

Al di là di ogni singolo aspetto, l’intero documento statunitense appare nettamente e inequivocabilmente schierato a difesa delle tesi israeliane. Ancora l’ambasciatrice Rodrigues-Birkett ha fatto notare che “se si leggesse questa risoluzione senza avere una conoscenza pregressa dei fatti, sarebbe difficile capire quale parte del conflitto sta commettendo le atrocità a Gaza […]. In una risoluzione di 41 paragrafi, 2.036 parole, la potenza occupante [Israele] è menzionata una sola volta nel penultimo paragrafo”. Mentre Hamas viene citata più volte come organizzazione terroristica ed è costante il richiamo ai fatti del 7 ottobre, non vengono mai esplicitamente menzionate dichiarazioni e decisioni del governo israeliano, né si mette in questione il comportamento dell’IDF sul campo; men che meno viene richiamata la pronuncia della Corte internazionale di giustizia (organo delle Nazioni Unite) che ha rinviato a giudizio Israele con l’imputazione di aver commesso un genocidio a Gaza. Infine, rimane inevasa la questione sul destino dell’UNRWA, l’agenzia ONU per l’assistenza dei profughi palestinesi a cui Washington ha bloccato i finanziamenti per tutto il 2024 a seguito dell’accusa mossa da Israele, ma mai supportata da prove concrete, secondo cui una dozzina di suoi funzionari (su 30mila in totale) sarebbero organici ad Hamas.

Alla luce di tutto ciò, bisognerebbe chiedersi quali ragioni abbiano indotto la Casa Bianca a presentare una proposta di risoluzione di questo tenore. La risposta è abbastanza semplice e potrebbe essere sintetizzata dicendo che gli USA, sulla questione Gaza, hanno cambiato il tono del discorso senza cambiarne la sostanza politica. Il cambiamento di tono, evidente nella dimostrazione di maggiore apertura alle possibilità di un cessate il fuoco e di maggiore attenzione alla questione umanitaria, si è reso necessario perché Washington, come Israele, si sta trovando sempre più isolata a livello internazionale e vede così pericolosamente esposta la propria autorevolezza. D’altra parte, il documento presentato all’ONU risponde anche e soprattutto a ragioni politiche interne agli USA.

Biden e il suo staff, infatti, si sono resi conto che una buona metà dell’elettorato democratico è fortemente critica dell’atteggiamento della Casa Bianca sulla questione palestinese. Soprattutto dopo il 5 marzo, ossia il “Big Tuesday” delle primarie dem che ha visto decine di migliaia di elettori in diversi stati non esprimere nessuna preferenza per la candidatura presidenziale (il cosiddetto “uncommitted vote”), è stato chiaro che, sulla guerra a Gaza, Biden rischia di giocarsi la rielezione. Da qui il cambio di strategia comunicativa che ha trovato piena conferma nella formulazione della proposta di risoluzione presentata all’ONU. Il fatto poi che, come era prevedibile, avversari storici degli Stati Uniti come Cina e Russia abbiano posto il veto all’approvazione del documento non ha fatto che fornire a Biden uno strumento in più per provare a ricondurre all’ovile l’opinione pubblica democratica.

Ma il cambiamento di tono e di strategia comunicativa non comporta un cambiamento di linea politica. Al contrario, la conferma dell’adesione alle tesi israeliane espressa dalla proposta di risoluzione non fa altro che consolidare l’orientamento fin qui tenuto dagli Usa, ossia un sostanziale nulla osta concesso a Israele per qualsiasi azione voglia intraprendere e la rassicurazione al governo di Netanyahu che il rapporto privilegiato con la superpotenza americana, e la copertura politica e diplomatica di cui esso è foriero, non verrà meno in nessun caso. Senza dirlo, Washington ha così dato luce verde alle prossime operazioni militari di Tel Aviv.

Sotto questa luce, il rimpallo delle dichiarazioni tra Blinken, per il quale l’attacco a Rafah rischia di “isolare ulteriormente Israele”, e Netanyahu, deciso ad attaccare “con o senza il sostegno americano”, appare come un gioco delle parti inteso a confondere le idee, o meglio a mostrare l’esistenza di una dialettica politica laddove, invece, c’è assoluta identità di vedute. A spazzare via ogni dubbio, se ce ne fosse stato ancora bisogno, ci ha comunque pensato il portavoce National Security Council John Kirby che, alla domanda sulle condizioni poste dagli USA a Israele per l’invasione di Rafah, ha risposto: “Non abbiamo intenzione di stabilire delle condizioni. Israele è un Paese sovrano. Ha le sue forze armate e le sue operazioni da condurre. Sono loro che devono prendere le decisioni”. Insomma, the slaughter must go on, la carneficina dei palestinesi può continuare.

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