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Storia della sanità, capitolo XVIII: <br> l’Ippocrate arabo, il filosofo e poeta Maimonide

di Emanuele Davide Ruffino e Germana Zollesi |


Un ruolo importante nella storia della medicina è stato ricoperto dagli arabi, sia per la loro opera di conservazione e divulgazione del sapere classico, sia per i contributi da questi offerto nell’evoluzione dell’approccio dell’uomo alla tutela della salute.Nei cento anni che seguirono la morte di Maometto (632 d.C.), l’espansione araba proseguì apparentemente inarrestabile, fino a comprendere la penisola iberica e tutti i Balcani a ovest e giungendo a est fino ai confini dell’impero cinese.

Nel vasto territorio conquistato dagli arabi erano presenti popolazioni assai eterogenee anche culturalmente, con tradizioni filosofiche, scientifiche e religiose le più disparate. Dopo i primi decenni, caratterizzati da intolleranza verso ogni forma di pensiero che non fosse espressa nel Corano (nel 642, dopo la conquista dell’Egitto, ciò che restava della grande biblioteca di Alessandria fu distrutta per ordine del califfo Omar), i nuovi dominatori si mostrarono nel complesso più tolleranti e si fecero promotori di una maggiore integrazione culturale e nelle arti. La maggiore fioritura culturale islamica si ebbe sotto la dinastia degli Abassidi, che s’impadronirono del potere nel 750 e trasferirono la capitale del califfato a Bagdad dove, nel 832 venne fondata una scuola di interpreti (trasformata poi in università attiva fino al XIII secolo quando fu distrutta dai mongoli) ad opera della quale furono tradotti in arabo le principali opere di filosofia e scienza del mondo classico ed ellenistico, da Platone e Aristotele a Euclide e Archimede. L’influenza di Avicenna e Averroè

In questo rifiorire culturale venne ovviamente anche tradotto il Corpus ippocratico. La dottrina ippocratica incontrò grande favore presso i medici arabi, che ne integrarono i contenuti inquadrandoli in una visione filosofica più ampia di derivazione platonica e aristotelica. I due grandi esponenti della filosofia araba, Avicenna e Averroè) erano entrambi medici e scrissero entrambi opere di medicina che godettero di larga fama e influenzarono la filosofia, oltre che il pensiero medico, medioevale. Ma l’opera di maggior spessore nel settore sanitario è forse da attribuire ad Albucasis (936-1013) che si cimentò nella compilazione, un’enciclopedia medica in 30 volumi, l’ultimo dei quali dedicato alla chirurgia. Fu in questo vivace ambiente di tolleranza, culturalmente aperto a influenze assai eterogenee, che si situa l’opera di Moshe ben Maimon, meglio conosciuto nell’Europa medioevale come Maimonide (1138-1204), figura interessante di poeta, filosofo e medico di religione ebraica, che fu attivo in Spagna ove nacque e in Egitto, dove fu anche il medico personale del sultano Salah al-Din (conosciuto come Saladino), il conquistatore di Gerusalemme. Come filosofo, fu un convinto aristotelico e sostenne la conciliabilità della rivelazione biblica con la filosofia. Ai primordi del “consenso informato”

In campo medico Maimonide sostenne il metodo ippocratico e la teoria degli umori. La sua importanza nello sviluppo dell’etica medica deriva dall’attenzione che egli attribuisce al diritto del paziente di pretendere di decidere autonomamente sulla base di una corretta e completa informazione da parte del medico: in questo senso Maimonide può essere considerato come un assertore ante litteram del consenso informato, uno dei temi più importanti nella definizione moderna del rapporto medico-paziente. L’informazione, secondo Maimonide, non va solo data, ma anche accolta e compresa dal paziente. Uno dei suoi aforismi (ne raccolse moltissimi nella sua lunga carriera) invita esplicitamente il paziente a non accettare un’opinione solo sulla base del prestigio o dell’autorità del medico, ma ad “investigare e pesare questa opinione in accordo all’applicazione della pura logica”. Oltre alla necessità di acquisire il consenso del paziente al trattamento, dopo avere esposto con chiarezza le diverse opzioni disponibili, Maimonide sostiene il diritto del paziente a rifiutare trattamenti inutili o troppo gravosi, dimostrandosi così un convinto assertore del principio di autonomia e contrario a quell’atteggiamento medico che viene oggi definito come “accanimento terapeutico”. Scrive, infatti, ancora negli aforismi: “La medicina indica ciò che è utile e mette in guardia da ciò che è nocivo, senza imporre, però, ciò che è utile e senza punire chi abusa di essa”. Verso il superamento del paternalismo nella medicina

Gli scritti di Maimonide mettono in evidenza una comprensione profonda, e molto attuale, delle pressioni sociali e culturali che possono limitare la libera scelta sia del paziente che del medico nella ricerca della migliore linea di azione e insistono sul dovere del medico di cercare un accordo terapeutico con il paziente attraverso un’informazione corretta e completa. Questo atteggiamento di umiltà del medico, legato certo anche al riconoscimento della limitatezza dei mezzi tecnici a disposizione, emerge anche dal suo invito, in caso d’incertezza, allo scambio di informazioni con altri medici, definendo così con chiarezza il principio di inter-professionalità o professionalità compartecipata, intesa come impossibilità per chiunque di conoscere tutto lo scibile e conseguentemente necessità di un continuo confronto fra i sapienti dell’arte medica. Pur seguendo le linee fondamentali dell’interpretazione ippocratica della medicina, Maimonide supera il paternalismo medico al quale era improntata la medicina classica, soprattutto nella sistematizzazione datane da Aulo Cornelio Celso (I secolo d.C.), l’autore del primo trattato De medicina e poi da Galeno. Entrambi non erano romani, ma provenivano dalle province, dalla Gallia il primo e dalla Grecia il secondo, ma più in generale tutta la medicina era affidata agli schiavi che così potevano acquisire agiatezze e spesso la liberazione. Se i loro padroni sopravvivevano alle loro cure, ovviamente. In quest’ultimo caso, si diventava anche amici, come testimonia il legame tra Cicerone e il suo medico Alexion. La “Preghiera quotidiana del medico”

L’insegnamento ippocratico, e neppure il suo Giuramento, parla dei chiarimenti da dare al malato, ma piuttosto della riservatezza che il medico è tenuto ad osservare. Nello scritto del Corpus “Comportamento dignitoso” si trova piuttosto l’invito rivolto al medico di contenere le informazioni da dare al malato, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti prognostici, seppure sempre nell’interesse del malato.Da queste due impostazioni emerge con evidenza la problematica di “se” e “quando” comunicare la paziente una diagnosi nefasta: problematica ancor oggi dominante la coscienza di molti operatori sanitari, in quanto si presenta ogni giorno, in condizioni sempre diverse e conseguente necessità di fornire risposte sempre diverse. L’impostazione etica di Maimonide come medico è espressa nella sua “Preghiera quotidiana del medico”, giustamente paragonata per importanza al giuramento di Ippocrate, anche se da esso si discosta sotto diversi aspetti. Intanto si tratta di una preghiera, cioè di una chiara manifestazione di umiltà, nel chiedere a Dio l’aiuto nella sua opera, mentre il medico del Giuramento, chiama la divinità a testimone del suo impegno. La preghiera riconosce inoltre la limitatezza umana del medico e lo invita a seguire i consigli di chi è più saggio, in quanto il sapere medico è vasto e l’intelletto umano limitato. Come per Ippocrate, il bene del malato è al centro dell’opera del medico, ma Maimonide vede il bene inseparabile dall’amore che il medico deve nutrire per la sua arte e per tutte le creature. La preghiera del medico è compresa in un ambito d’intensa religiosità del tutto assente nel Giuramento, anche per la necessità della medicina ippocratica di affrancarsi da una visione religiosa politeistica del malato e della malattia, che li vedeva strumenti e burattini degli dei, imprevedibili e capricciosi. Maimonide invece, come peraltro i pensatori cristiani medioevali, ritrova nella religione un aiuto prezioso, in un Dio che ha creato l’uomo dotato di saggezza perché possa lenire il dolore del fratello.

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