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Silvia Romano e tutti noi

Aggiornamento: 21 apr 2023

di Luca Rolandi

La liberazione della giovane cooperante Silvia Romano può e deve essere letta attraverso le lenti dell’umanità, la conoscenza dei fatti e la responsabilità di ciò che si afferma e si dice, scrive e denuncia. Lascio per questo perdere la deriva, che ci eravamo illusi si potesse frenare con la tragedia della pandemia, dell’odio e della povertà culturale e della scarsa dignità e pietas attraverso la quale soprattutto i social network sono stati inondati. La questione geopolitica, diplomatico e del rapporto tra Stato democratico, il nostro, e una centrale terroristica del fronte jihādista somalo, è terribilmente complicata e per questo doverosamente è già indagata dalle autorità competenti: riscatto, triangolazioni di intelligence e polizia internazionali, servizi segreti. La nostra memoria corta, oltretutto, ci dice che questa situazione è da molti anni presente e molti sono stati e, purtroppo ancora sono, le donne e gli uomini in mano ai sequestratori di varie milizie integraliste islamiche in Medio Oriente e in Africa. Molti sono stati anche i cooperanti uccisi e mai tornati: una lunga lista di persone, donne e uomini che hanno sacrificato la loro vita per aiutare popolazioni e comunità in difficoltà. Persone colpite perché indifese, colpite in modo infame e brutale, secondo i metodi della logica del male che anima i gruppi terroristici E sono caduti nell’adempimento del loro dovere in situazioni estreme anche uomini di Stato, come Nicola Calipari, perito nell’azione di salvataggio nel 2005 della giornalista de “Il Manifesto” Giuliana Sgrena. Ci si deve interrogare su una realtà che è stata, e sarà, sempre più al centro delle dinamiche più delicate di quei territori e mondi: soprattutto come agire nei confronti di eserciti del male, affamati di potere, fanatici religiosi e sempre alla ricerca di risorse economiche, come si evince dalla pratica dei sequestri per ottenere riscatti da Stati e nazioni d’origine dei rapiti. Credo sia doveroso, in generale, riconoscere il bene (cooperazione internazionale, aiuto allo sviluppo di regioni e popolazioni rurali, sostegno alle attività educative, didattiche e sanitarie) delle migliaia di cooperanti che si misurano con realtà di sofferenza, fame, miserie, povertà. Cooperanti che si trovano, anche a dover affrontare e subire il delirio di onnipotenza che strumentalizza a scopo politico la religione e si basa su un assunto preciso: la violenza come pratica quotidiana nei rapporti con l’altro da me, la necessaria e paranoica acquisizione con la forza più brutale di risorse economiche per sostenere la lotta e infine l’uccisione e l’eliminazione fisica che è l’apice di una cultura della morte, nei confronti dei più indifesi, vulnerabili e nonviolenti, oltre la componente religiosa afferita alla categoria degli infedeli. Silvia Romano rimasta prigioniera per 18 mesi è dentro tutto questo e il rispetto e il silenzio che ora dovrebbe calare nei suoi confronti sarebbe doveroso. Anche e forse soprattutto la sua scelta di conversione è un atto intimo e privato. Sapremo poi se frutto di una coercizione o di una volontà profonda. Tutto è possibile. Ma ora è il tempo del silenzio e della cura, nei confronti di una ragazza di 25 anni. Tra il fiume di parole proprie e improprie di questi giorni, segnalo due riflessioni autorevoli: quella di padre Giulio Albanese, comboniano e missionario, fondatore dell’agenzia Misna, uno dei massimi conoscitori della realtà, e quella del giornalista Domenico Quirico, anche lui rapito in Siria e capace di raccontare dopo la prigionia il mostro che ti lascia dentro, negli spazi più profondi della coscienza e negli incubi e nei demoni che non si spengono e abbandonano per tutta la vita. Silvia Romano è giovane ha una vita davanti, lasciamola vivere perché è anche “una figlia nostra e ritrovata”. Più complesso è il tema generale, la politica che frutta (e sfrutta) addirittura infanga il nome della giovane cooperante, per un gioco di infima lotta di posizioni di rendita (sempre politica), così come quello di autorevoli commentatori che si erigono a paladini della moralità pubblica, in rappresentanza di tutti. Ma non ci possono e devono esserci sentenze. Semmai si deve sempre fare posto a pensieri, analisi, studi, conoscenza dei fatti e delle tradizioni anche religiose, rispetto per tutti. La condanna sì non deve mai mancare alle azioni violente, alla cultura di morte e soppressione dell’altro in qualsiasi forma e modalità. E su questo non si possono essere distanze, perché il male si combatte sempre con i mezzi del diritto e della ragione, a volte anche della forza, per fare prevalere il bene e la dignità di persona.

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