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Netanyahu come Trump? In Israele ora se lo domandano

di Menandro|

La stampa israeliana non ha usato perifrasi per affrontare il problema che tiene inchiodato il Paese da troppo tempo, sospeso tra la guerra con Hamas e la crisi economica. Il problema si riassume in un solo nome: Netanyahu. L’uomo che ha cancellato dal suo personalissimo vocabolario la parola sconfitta. Non la conosce. E se dovesse mai incontrarla, nitida e leggibile, direbbe ai suoi interlocutori di non riconoscerla. Questione di logica: si può mai riconoscere chi non si conosce? Il primo ministro d’Israele su questo ci gioca e sa di poter divertire anche i suoi numerosi sostenitori, nonostante le ripetute manifestazioni di giubilo per la sua possibile estromissione dalla stanza dei bottoni che si sono registrate nella capitale Tel Aviv e dintorni, ad Haifa, e in altri centri del Paese. Eppure, Netanyahu detto Bibi, carismatico leader del Likud, da dodici anni al potere, autorevole e autoritario, ironico su se stesso quanto basta a costruirsi un’immagine di uomo libertario e tollerante, ma spietato con chi oltrepassa il segno e scivola nel sarcasmo, sembra avere per la testa tutt’altro che accogliere la notifica di sfratto che gli è stata recapitata dal capo del partito Yamina, Naftali Bennet, che insieme al centrista Yair Lapid, ha costituito un governo di unità nazionale. Al punto, che i media israeliani, perplessi per la piega che hanno preso gli avvenimenti e per le sorti democratiche del paese, hanno cominciato a far circolare l’equazione Netanyhau uguale a Trump, ravvisando comportamenti analoghi (e pericolosi) a quelli dell’ex presidente americano. Del resto, i due – estremamente fisici nel manifestare le proprie opinioni – non hanno mai nascosto una reciproca simpatia che si fonda su uno stile comune sul piano della comunicazione, aggressiva e irriverente verso gli avversari. Oltre, fattore non secondario, a saper prendere il meglio l’uno dall’altro, che in una società atomizzata e individualistica, spregiudicata e egoistica, diventa un titolo di merito. In primis, favori (militari e diplomatici) accolti con piacere in Israele e con soddisfazione dalla potente lobby ebraica degli States. E questo spiega il sostegno a Netanyahu che gli deriva da quello che viene definito “il popolo esterno”, alimentato dai suoi successi in campo internazionale, da una stampa estera che nell’ultimo decennio ne ha consacrato il mito di politico più longevo di Israele, superiore persino ai padri fondatori della Patria, da Ben Gurion a Golda Meir a Yitzhak Rabin, Shimon Peres, Ariel Sharon. Sia chiaro, in patria Netanyahu è ancora amato. E in una nazione in guerra dal suo primo vagito, in cui ogni famiglia ha almeno un eroe morto da ricordare, lui gode anche di una speciale eco d’eroismo: la morte di suo fratello maggiore, il tenente colonnello Yonatan Netanyahu, caduto nel raid di Entebbe il 4 luglio del 1976; aveva poco più di trent’anni. Ma il potere, gli ha ricordato la stampa israeliana poggia ancora su un architrave democratico. E ciò significa rispettare la volontà popolare sempre più rivolta al cambiamento cui non può continuare a rivolgersi – ed è ciò che l’accomuna a Trump – denunciando brogli e truffe elettorali inesistenti. Accuse ora sempre più simili a rigurgiti antidemocratici, illiberali, che non sono perdonabili a nessuno.

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