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Nassiriya, il dolore nel ricordo della strage


Era il 12 novembre del 2003. A Nassiriya, città meridionale dell’Iraq, l'orologio segnava le 10,39, quando l'autocisterna, carica di esplosivo, guidato da terroristi di Al Queda puntò direttamente verso la base Maestrale, presenza militare italiana sul suolo iracheno all'interno dell'Unità multinazionale (MSU), arrivata il 13 giugno dello stesso anno, all'interno della missione denominata "Operazione Antica Babilonia". In quel momento, a 28 persone ignare di quanto stesse accadendo, non rimaneva che sessanta secondi di vita.

L'obiettivo di forze ostili, nel centro della città, sede della Camera di Commercio durante il regime di Saddam Hussein, era ritenuto "facile" da colpire. Concorrevano a questa valutazione sia la posizione logistica della caserma, sia il sistema di force protection, secondo la valutazione dell'Esercito, inferiore agli standard previsti dal protocollo Nato, adottato dall'Arma dei carabinieri, sensibile a connotare la presenza militare italiana a "scopo umanitario", al servizio dei bisogni della popolazione civile.

Scelta encomiabile e coraggiosa, ma dall'effetto traumatico, che avrebbe provocato strascichi polemici e diversità di giudizio nelle perizie e indagini successive, riportando a galla il dualismo persistente tra Arma dei Carabinieri ed Esercito nelle funzioni e nei poteri dell'una (forza di polizia e nel contempo forza armata) e dell'altro (difesa), ruoli sul territorio e nel rapporto con la società che sono stati influenzati dalle riforme avvenute agli inizi del Duemila, in particolare dalla soppressione della leva obbligatoria (2005) che ha modificato sostanzialmente, anche in termini numerici, il peso specifico (politico-militare) dei due apparati.

L'Apocalisse. A Nassiriya il camion-bomba esplose alle 10,40 alle porte della caserma smembrando con la forza devastante che può assicurare una carica di 400 chilogrammi di tritolo mescolato a liquido infiammabile tutto ciò che vi era nel raggio di alcune centinaia di metri. Soltanto la mira da cecchino dell'appuntato Andrea Filippa, di guardia all'ingresso della base, impedì una strage di ancor più gravi dimensioni eliminando due terroristi, così evitando che il mezzo penetrasse all'interno della caserma.

L'attentato provocò 28 morti, 19 italiani e 9 iracheni, e il ferimento di altri 20 italiani. Il prezzo più alto subito dalle nostre Forze armate dalla fine della Seconda guerra mondiale. Nell'esplosione rimase coinvolta anche la troupe del regista Stefano Rolla che si trovava sul luogo per girare uno sceneggiato sulla ricostruzione a Nassiriya da parte dei soldati italiani, nonché i militari dell'esercito italiano di scorta alla troupe, che si erano fermati lì per una sosta logistica.

Meno di due anni dopo, una serie di interventi giornalistici aprì un serrato dibattito politico sulle reali ragioni delle missioni militari in Iraq, decise dall'allora governo Berlusconi. Secondo un rapporto commissionato nell'inverno del 2003, quasi a ridosso dell'invasione dell'Iraq da parte degli Stati Uniti, le iniziative militari erano legate più alla tutela di interessi petroliferi - di antica data per la presenza dell'Eni - che per scopi umanitari. E ciò che rese ancora più doloroso il ricordo per i familiari dei caduti cui è stata negata l'onorificenza delle medaglie al valor militare.

Oggi, a venti anni dalla strage, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricordato con una lettera al ministro delle Difesa Guido Crosetto, "il sentimento del lutto [che] ci accompagna in questo giorno in cui la Repubblica rivolge il suo pensiero ai tanti feriti e caduti nelle missioni che l’Italia ha sviluppato in questi anni a servizio della comunità internazionale e dei diritti dei popoli, insieme all’espressione della solidarietà e vicinanza alle famiglie colpite". La partecipazione a queste importanti operazioni in tante travagliate regioni del mondo, ha sottolineato il Capo dello Stato, "è il segno dell’impegno e del contributo del nostro Paese allo sforzo concreto della comunità internazionale per combattere gli orrori e le atrocità delle guerre e del terrorismo".


I nomi delle vittime italiane:


Carabinieri

  • Massimiliano Bruno, maresciallo aiutante, Medaglia d'Oro di Benemerito della cultura e dell'arte

  • Giovanni Cavallaro, sottotenente

  • Giuseppe Coletta, brigadiere

  • Andrea Filippa, appuntato

  • Enzo Fregosi, maresciallo luogotenente

  • Daniele Ghione, maresciallo capo

  • Horacio[2] Majorana, appuntato

  • Ivan Ghitti, brigadiere

  • Domenico Intravaia, vicebrigadiere

  • Filippo Merlino, sottotenente

  • Alfio Ragazzi, maresciallo aiutante, Medaglia d'Oro di Benemerito della cultura e dell'arte

  • Alfonso Trincone, Maresciallo aiutante

Militari dell'Esercito italiano

  • Massimo Ficuciello, capitano

  • Silvio Olla, maresciallo capo

  • Alessandro Carrisi, primo caporal maggiore

  • Emanuele Ferraro, caporal maggiore capo scelto

  • Pietro Petrucci, caporal maggiore

Civili

  • Marco Beci, cooperatore internazionale

  • Stefano Rolla, regista


La camera ardente per tutti gli italiani morti venne allestita nel Sacrario delle Bandiere del Vittoriano, dove fu oggetto di un lungo pellegrinaggio di cittadini. I funerali di Stato si svolsero il 18 novembre 2003 nella basilica di San Paolo fuori le mura, a Roma, officiati dal cardinale Camillo Ruini, alla presenza delle più alte autorità dello Stato, e con vasta (circa 50.000 persone) e commossa partecipazione popolare;[ le salme giunsero nella basilica scortati da 40 corazzieri a cavallo. Per quel giorno fu proclamato il lutto nazionale.[1]


Note



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