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Lo sciopero oggi è più che mai donna

di Dunia Astrologo

Nei giorni scorsi molte città d’Italia sono state percorse da cortei, in alcuni casi decisamente imponenti, di lavoratori e cittadini impegnati in grandi battaglie di civiltà: lo sciopero contro diseguaglianze, povertà e mancanza di strumenti di politica economica per superarli, da un lato, e la difesa di un diritto inalienabile come quello al rispetto, alla sicurezza, alla parità economica e alla libertà delle donne, dall’altro.

Che cosa hanno in comune questi movimenti che sembrano così diversi tra loro? Secondo me molto. Gli scioperi delle ultime settimane avevano come obiettivo quello di richiedere l’aumento dei salari, condizioni contrattuali migliori e più diritti, l’abbattimento del precariato e per “contrastare una legge di bilancio che non ferma il drammatico impoverimento di lavoratrici, lavoratori, pensionate e pensionati e non offre futuro ai giovani”[1]. Le condizioni sociali ed economiche a cui fa riferimento questo sciopero sono sofferte da tutti i lavoratori, ma in misura anche più grave dalle donne italiane la cui retribuzione media lorda settimanale è di 468,12 euro contro 603,8 euro per gli uomini. In generale quindi (comprendendo quindi le retribuzioni più povere e quelle più ricche, di manager e funzionari di grandi aziende, banche e così via) gli uomini guadagnano – al lordo - il 22,5% in più.

Conseguentemente il differenziale di genere riguarda anche il confronto tra pensionate e pensionati: infatti, rispetto alla media del totale delle pensioni di vecchiaia, gli uomini percepiscono il 32,9% in più. Del resto il tasso di occupazione femminile in Italia è tra i più bassi d’Europa: il 49,4% delle donne rispetto al 63,4% della media europea[2]. Va anche considerato un altro dato, più difficile da sintetizzare, ed è la quantità di lavoro non retribuito svolto dalle donne che si aggiunge spesso a quello retribuito, istituzionale. Si calcola che le donne svolgano lavoro domestico in media 2 ore al giorno in più rispetto agli uomini. Quindi si può dire che le donne, meno retribuite, meno occupate, con minore possibilità di carriera per i carichi familiari, oltre che per i pregiudizi e le diseguaglianze interne al mercato del lavoro, sgobbano comunque di più rispetto agli uomini.


"Basta" alla violenza e sfruttamento di genere

Ce n’è abbastanza per scendere in piazza con il sindacato per uno sciopero generale, per poi tornare pochi giorni dopo a scendere in piazza per dichiarare che "basta così", che oltre allo sfruttamento di genere è l’ora di bloccare la violenza di genere che colpisce senza freni e che ha origine dalla medesima cultura patriarcale e maschilista che inquina la società, la cultura e l’economia.

Chi ha cercato di sminuire il valore dello sciopero generale, arrivando a sbeffeggiarlo come se fosse un modo per garantirsi (a che prezzo?) un weekend lungo, non sente ancora il rumore della rabbia che sta salendo da ampi strati della popolazione. Fa specie che tra questi vi sia una parte del sindacato che, pur richiamando, giustamente e da parecchio tempo, l’attenzione delle altre organizzazioni sindacali sulla diffusione di nuovi modelli organizzativi improntati alle nuove tecnologie, sembra non vedere quanto le politiche e le pratiche reali, qui ed ora, del lavoro in Italia siano ancora assai arretrate, quanto sia prioritario far fare qui e ora un passo in avanti, e forse più di un passo, alle condizioni sociali odierne dei lavoratori, prima di occuparsi attivamente del lavoro che verrà. Solo quando le lavoratrici e i lavoratori italiani saranno retribuiti giustamente e in modo realmente uguale, sino a quando le condizioni di lavoro non saranno rese sicure e i processi produttivi non saranno improntati allo “stato dell’arte” tecnologico, fino a quando la produttività non sarà adeguata alla media europea, i distinguo sull’opportunità di uno sciopero che chiede proprio questo (tra l’altro con una sostanziale condivisione da parte delle organizzazioni imprenditoriali) ai governanti attuali, le cui scelte di politica economica non ci si avvicinano neppure un po’, sembreranno piuttosto fumosi.


La riduzione dell'orario di lavoro

Altra considerazione merita invece la proposta che, con diversa intonazione e ancora timidamente invero, viene avanzata dalle organizzazioni sindacali, di pensare a una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario, pratica che si sta diffondendo o che si è già sperimentata in diversi paesi europei, insieme a una flessibilità nella distribuzione del tempo di lavoro che consente ai lavoratori di scegliere il modo in cui l’orario contrattuale può essere individualmente gestito: vuoi con un tempo pieno per 3 o 4 giorni alla settimana, vuoi con un tempo parziale giornaliero, vuoi con un utilizzo del monte ore libere in periodi di ferie flessibili e così via. L’obiettivo è quello di sfruttare e insieme spronare l’incremento di produttività che ci si può aspettare dal progresso tecnologico, contrastando la disoccupazione tecnologica, e anzi aumentando i posti e le offerte di lavoro, e favorendo inoltre una maggiore, e condivisa tra uomini e donne, conciliazione tra tempo “produttivo” e tempo “improduttivo”.

Fa piacere apprendere che tali esempi di flessibilità e redistribuzione sociale del tempo di lavoro siano stati presi in seria considerazione dalla Segretaria del PD, Elly Schlein[3], che segnala con ciò, finalmente, una attenzione da parte della sinistra a un progetto economico e sociale innovativo, capace di rispondere con regole nuove ai grandi mutamenti che si dovranno affrontare nel brevissimo periodo per rispondere all’impatto del progresso tecnico e delle nuove pervasive tecnologie basate sull’Intelligenza artificiale (IA) e sulle sue diverse e ancora imprevedibili applicazioni.


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