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La storia, Biden e Putin

di Menandro|

“Macellaio e dittatore”. Su quanti capi di Stato o personaggi al potere si potrebbe scaricare, ieri e oggi, soprattutto, questo marchio infamante? L’elenco sarebbe lungo. Ma nel suo discorso a Varsavia il presidente americano Joe Biden lo ha circoscritto al presidente russo Vladimir Putin, l’uomo che da 32 giorni macella l’Ucraina. Su di lui è stato così gettato l’anatema dell’Occidente. Il che ha fatto apparire logica e naturale la conclusione di Biden: “Per l’amore del cielo, questo uomo non può rimanere al potere”. Frase che è stata interpretata dagli osservatori internazionali come una patente sollecitazione rivolta ai cittadini russi di liberarsi del “macellaio e dittatore”. Con quale manovra, a grandi linee, anche se non è stato reso esplicito dalla Casa Bianca, lo si potrebbe dedurre da un precedente che fu uno degli snodi delle “Primavere arabe”: la soppressione fisica del dittatore libico Gheddafi. Una “pratica” che si risolse il 20 ottobre del 2011, ma a chiusura di una guerra civile, non lo si dimentichi, che permane tuttora seppure sotto traccia, contrariamente ai piani originari. Ma per Biden, che ha accusato Putin di non conoscere la storia, l’ipostatizzazione dell’eliminazione dell’avversario, a corollario di un golpe di palazzo, va seguita con estrema attenzione. Innanzitutto, perché gli Usa hanno la libera docenza in materia sia di guerra civile, sia di rimozione forzata di oppositori alla democrazia. Eccezione fatta per alcuni incidenti di percorso, dall’esercizio esasperato della dottrina Monroe nel continente americano all’ingerenza in altri distretti del mondo, che in nome dei principi dell’Occidente e della democrazia sono sempre perdonati all’establishment a stelle e strisce. Nel caso della guerra civile, gli americani ne sono stati protagonisti dal 1861 al 1865 con l’atto di secessione che oppose gli Stati del Nord alla Confederazione degli Stati del Sud. Quindi, il presidente americano, quando si tratta di storia sa di che cosa parla. Da profondo conoscitore, se non da erudito di storia patria, non gli sfugge che la guerra intestina si concluse in virtù dell’applicazione sistematica della dottrina del generale William Tecumseh Sherman (1820–1891), da cui il nome del famoso carro armato della Seconda guerra mondiale, oltre a quello dato in suo onore a una sequoia gigante che si suppone abbia superato di molto i duemila anni. Nel ritornare alla guerra di secessione, fu Sherman, infatti, che per primo teorizzò e mise in pratica la distruzione di ogni territorio occupato per stremare e piegare le popolazioni civili. Nella circostanza, il suo personalissimo “laboratorio” divenne lo Stato della Georgia: chi non ricorda l’incendio della capitale Atlanta trasposto nel famoso film “Via col vento”? La strategia di Sherman (che il generale riprodusse con altrettanto grande “successo” contro i nativi americani, i pellerossa) contribuì ad accorciare una guerra civile tanto crudele e spietata nel suo svolgimento, quanto ulteriormente divisiva negli anni che seguirono la pace. Assassinato il presidente Abramo Lincoln, la ricostruzione dell’immenso paese si orientò in maniera unilaterale al motto – che riformato e adeguato ai tempi sarebbe riecheggiato nei secoli successivi – “prima gli interessi dei grandi capitalisti del Nord”. Una frattura che non si è mai del tutto rimarginata negli Usa. La guerra civile russa è più vicina a noi e soprattutto è maggiormente presente nella memoria delle famiglie russe. Risale a un secolo fa, quando l’Armata Rossa bolscevica guidata da Lev Trockij contrastò, all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre, la reazione di ciò che rimaneva ancorato all’idea dell’autocrazia zarista: una sommatoria eterogenea di partiti, nobili, ufficiali che si raccoglieva sotto le insegne delle famose Armate Bianche. Fu una guerra che durò dal 1918 al 1921, di cui la letteratura russa, da Michail Aleksandrovič Šolochov a Boris Pasternak, ci ha lasciato affreschi indimenticabili, alla quale parteciparono a fianco dei “bianchi” contingenti di Gran Bretagna, Stati Uniti Francia, Italia e Polonia. Quest’ultima, interessata a estendere i suoi confini a sud, dopo aver dichiarato guerra alla Russia, conquistò Kiev il 25 aprile del 1920. Più di tre anni di guerra civile, contrassegnata da massacri, decimazioni, violenze sulla popolazione civile (soprattutto contadini) e carestie, portarono a livelli disumani il senso della sopravvivenza per le comunità russe. Uno scenario che all’interno di una società scivolata verso la tribalità, si dilatò nel tempo a causa dei sentimenti provati e suscitati su larga scala, dall’odio alla vendetta. Eppure, il regime bolscevico non cadde. Anzi. Si rafforzò, andando persino oltre la cinica lucidità di Lenin. Morto il padre della rivoluzione, il potere si concentrò nelle mani del “piccolo padre”, il georgiano Stalin, che con paranoica determinazione promosse le “purghe” politiche e diede loro numeri da sistema industriale per uccisioni, deportazioni nei gulag, anni di carcere, terrore imposto alla popolazione. In altri termini, a pagare fu soltanto il popolo russo. Davvero una bella prospettiva a un secolo di distanza da quegli avvenimenti di cui dovrebbe tenere conto chi conosce la storia. Il dolore e le sofferenze degli innocenti di una parte, non hanno mai compensato dolore e sofferenze della parte opposta. Non a caso e molto opportunamente, un consigliere della Casa Bianca si è preoccupato di spiegare che il presidente Biden non metteva in discussione il potere in Russia di Putin, né prefigurava un cambiamento di regime al Cremlino, ma si limitava a contrastare la sua volontà di esercitare il potere sui Paesi confinanti. Parole sagge, che non sono probabilmente arrivate in tempo reale all’orecchio del presidente russo, se lo Stato maggiore delle sue Forze armate ha intensificato l’azione di artiglieria e il lancio di missili sulle città ucraine, uccidendo altri inermi civili. Allora, il valore delle parole dovrebbe ritornare a farsi spazio nelle nostre coscienze e soprattutto nella memoria. Ma per il rispetto che merita chi decide dei nostri destini, chi ha il peso di gravi responsabilità nel mondo, non ci si permette di dare gratuiti consigli. Però, è anche il caso di ricordare a tutti noi, quando si teme di avere un vuoto di memoria, di farsi soccorrere, adattandolo alla bisogna, da quel delicato e spiritoso motivetto di una celebre canzone di Renato Carosone: “Pígliate na pastiglia! Pígliate na pastiglia, siente a me!”.

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