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L'EDITORIALE DELLA DOMENICA. Terre rare, la vera battaglia del millennio

di Germana Tappero Merlo


“Dal tè all’oro nero, dalla noce moscata al tulipano, dal salnitro al carbone, le materie prime hanno sempre accompagnato le grandi esplorazioni, gli imperi e le guerre, e hanno spesso cambiato il corso della storia. I metalli rari stanno a loro volta cambiando il mondo”[1]. Od ancora, se il mondo pretende di cambiare rotta ed evolversi verso le green tech, le nuove tecnologie verdi che mirano a ridurre l’impronta di carbonio dell’uomo sull’ambiente, questi metalli, fra cui il litio, nickel e cobalto, possiedono le giuste proprietà per realizzare ciò che serve a questa transizione energetica, e per questo sono venerate da ricercatori, ingegneri e industriali. Meno da strateghi, economisti e militari, se ben informati, e decisamente molto meno dai decisori politici, che li reputano al pari di una spinosa seccatura, vista la sfrenata competizione mondiale che si è scatenata da circa un ventennio per l’accaparramento di questi metalli, fra i quali spiccano le ormai note terre rare. Queste sono composte da 17 elementi chimici[2] che, per proprietà magnetiche, catalitiche e ottiche, risultano essenziali e per nulla sostituibili (ad ora) per la produzione di semiconduttori, fibra ottica, componenti per smartphone, pannelli fotovoltaici e auto ibride, per citare gli impieghi più comuni. Ma non solo.


Il predominio della Cina

L’intera produzione industriale di apparati bellici e per la difesa dipende dalle terre rare: il lantanio è presente nei visori notturni, il neodimio nei sistemi a guida laser e per le comunicazioni in genere, l'europio nei sistemi di illuminazione e nei monitor, l’erbio nei sistemi di trasmissione in fibra ottica, e il samario è fondamentale per i magneti resistenti alle alte temperature e ne è dipendente la tecnologia dei droni e tutto ciò che riguarda quella stealth[3]. E sono solo alcuni esempi. La loro carenza ne ostacolerebbe la produzione, ma ancor più impedirebbe quella transizione, vera e propria al pari di un’ennesima rivoluzione negli affari militari, che proietta tutta la gestione della difesa e la conduzione delle future guerre verso l’intero high tech, privandola della dipendenza da idrocarburi; o almeno, queste sarebbero le aspirazioni, stando ai progetti industriali e strategici, da almeno un decennio, di potenze militari come gli Stati Uniti[4].

Terre rare e strategiche che, ed è ormai più che noto, sono da anni un pressoché totale monopolio della Cina, con il suo circa 90% fra possederne sul proprio territorio e controllarne estrazione e lavorazione in parecchie aeree africane e centroasiatiche (in ultimo l’Afghanistan). Una gigantesca ricchezza naturale, la cui strategicità non è una scoperta dell’ultimo momento: già nel 1992 Den Xiaoping affermava che le terre rare erano per la Cina e il mondo intero quel che il petrolio era per il Medio Oriente. E se il carbone aveva dato l’avvio alla grande rivoluzione industriale del XIX secolo, gli idrocarburi quella del XX secolo, ecco che allora, metalli e terre rare avrebbero dato la spinta acceleratrice verso e per gran parte del nuovo millennio. Da qui la corsa al controllo di zone ricche di queste terre dalle proprietà magnetiche eccezionali. E se si considera che le nostre società altamente tecnologiche per mezzi di trasporto e di comunicazione sono diventate del tutto magnetizzate, non è esagerato dire che il mondo sarebbe fortemente rallentato senza l’apporto delle terre rare.


Una ricchezza naturale strategica

Un’accelerazione che, tuttavia, ha costi ambientali esorbitanti, perché l’estrazione (frantumazione sassi) e la raffinazione di terre e metalli rari non sono innocue per l’uomo e nemmeno minimamente pulite per ciò che lo circonda. Al pari del fracking per lo shale gas - il petrolio dalle rocce di scisto, panacea e pura illusione, esclusivamente statunitense, di indipendenza energetica - richiedono grandi quantitativi di acqua[5], processi chimici molto inquinanti (acidi solforici e nitrici), addirittura radioattivi (lavorazione del torio e uranio), mentre per il fracking anche rischi di terremoti, anche se qui, come sempre, il mondo scientifico appare molto diviso[6].

L’eventuale riciclaggio delle terre rare, invece, per chi, come il Giappone, lo ha proposto e tentato per primo, è risultato decisamente antieconomico e deludente perché dai vantaggi finali estremamente bassi se non nulli.

La Cina è stata quindi lungimirante sulle terre rare fin dagli ultimi due decenni del secolo scorso, definendo quei minerali “protetti e strategici” e acconsentendo solo joint venture con investitori esteri per l’ estrazione e la lavorazione: una lungimiranza però solo come affare e per l’impiego finale, non certo nei processi estrattivi e di trattamento, visti i gravi danni arrecati appunto all’ambiente (aria, terreni e falde acquifere) e alle popolazioni di intere regioni ricche di terre rare. Come quella di Baotou, nella Mongolia centrale, attraversata dal Fiume Giallo in gran parte inquinato dal torio - elemento radioattivo - di lavorazione con il risultato che quella regione (150milioni di abitanti) registra la più alta percentuale di malati di cancro dell’intera Cina. Ansia estrattiva, inquietudine competitiva, una vera e propria corsa senza controllo alle terre rare, il cui commercio inizialmente era prerogativa addirittura di un mercato nero in mano alla criminalità organizzata cinese, hanno però indotto un intervento drastico del governo centrale, che ora ne definisce ampiamente l’offerta, anche e soprattutto a livello internazionale.


La rincorsa di Stati Uniti e alleati

La lungimiranza cinese sulla strategicità delle terre rare è mancata però all’Occidente, dato che solo nel 2010 un rapporto redatto per il Congresso degli Stati Uniti innalzava a priorità per la sicurezza nazionale[7] lo stoccaggio di questi metalli, da cui dipendeva, allora come oggi, la grande industria dell’alta tecnologia, l’ultima manifattura americana di rilievo e per una possibile riscossa economica dopo i tracolli finanziari del 2006-2008; e poi, soprattutto, e come il petrolio, anche per porvi un controllo dominante circa l’accesso da parte di competitori politici, commerciali, industriali ma soprattutto militari.

Da allora una lotta sfrenata a procurarsi metalli e terre rare e che ha coinvolto pesantemente la politica internazionale delle due grandi potenze, Stati Uniti e Cina: un gioco squilibrato a favore di Pechino (“miniera del mondo di terre rare”) e un affanno continuo senza tregua per gli Stati Uniti e la restante comunità internazionale. Questa, poi, che solo di recente (Accordo di Parigi 2015) ha accolto il contenimento del riscaldamento climatico, e ha puntato verso la transizione energetica, non ha considerato però che sostenere questo cambiamento, nel nostro modello energetico e per via dell’aumento consistente di popolazione mondiale, richiederà il raddoppiamento dell’intero ciclo estrattivo e produttivo dei metalli rari ogni 15 anni, tanto che già nei prossimi trenta sarà necessario estrarne più di quanti ne abbia ricavati l’umanità di cinquecento generazioni che ci hanno preceduto. Detta diversamente, 7.5 miliardi di persone assorbiranno più metalli dei 108 miliardi di individui degli ultimi 70mila anni[8].

Ma anche senza voler ricorrere a queste cifre sbalorditive, basti pensare che la sola domanda di terre rare per l’Unione Europea dovrebbe crescere di 26 volte da qui al 2050. Ed è così che già da ora la lista dei metalli rari in esaurimento potrebbe affiancare quella delle specie animali e vegetali minacciate[9]. È dal rischio di trovarci a corto di risorse sfruttabili che deriva l’azzardo di vanificare in toto l’Accordo di Parigi e tutte le belle idealità che riempiono pagine di saggi e colonne di articoli soprattutto in questi giorni, dato che il 5 giugno di ogni anno si celebra la Giornata mondiale dell’Ambiente.


Le visioni di Jules Verne: il "dominio" ventimila leghe sotto i mari

Per attuare la transizione energetica, concretamente, e rimanere al passo come produzioni high tech e tutto quanto ad esse collegato e dipendente, è necessario quindi trovare altrove ulteriori fonti di metalli rari, e ancor più quelle preziose terre; ecco perché da più parti, dall’industria per la difesa alle stesse agenzie Onu preposte, si sta spingendo per la ricerca e l’estrazione di terre rare dai fondali oceanici.

E’ del 27 marzo scorso, infatti, la presentazione all’Accademia Navale di Livorno del rapporto Civiltà del Mare. Geopolitica, strategia, interessi nel mondo subacqueo. Il ruolo dell’Italia, frutto di una collaborazione mista CNR, Università La Sapienza di Roma, Marina Militare e Fondazione Leonardo.

Un voluminoso rapporto che esalta l’ambiente subacqueo, quello più profondo, difficilmente o non per tutti accessibile (oscurità e pressione dell’acqua), anche per via, fra i tanti, del ruolo di immenso deposito di terre rare, così da proiettarlo strategicamente, per chi solo volesse cogliere la vera portata di un tale studio, come sesto dominio strategico e militare, dopo la terra, acqua (di superficie), cielo, spazio e cyber. Perché da quel “mondo al di sotto del mare” dipende il futuro produttivo di gran parte delle nazioni più avanzate tecnologicamente, anche e soprattutto di quello legato alla Difesa, come accennato più sopra, come pure la potenza e la realizzazione della connessione di reti cyber fra continenti e la sopravvivenza energetica di intere aree geografiche. Perché è in quell’ambiente subacqueo, più ancora che nello spazio, che transitano dati (cavi sottomarini) e, più ancora che sulla superficie terrestre, anche i condotti di collegamento degli idrocarburi e dell’energia elettrica.

Ne deriva che il dominio subacqueo si rivela un ambiente da competizione ad alto valore per potenza economica ed influenza politica, perché fondamentale per le connessioni, le trasmissioni dei dati, di idrocarburi e per la ricchezza di terre e minerali rari. Tuttavia, e parallelamente, si è consapevoli della sua vulnerabilità per la sua naturale esposizione, così come per la mancanza di una regolamentazione sovranazionale condivisa, da cui il rischio di una competizione nel dominio subacqueo senza regole adeguate. Insomma, si apre una nuova frontiera, non solo per i rischi ambientali ma anche per questioni di sicurezza nazionale (il rapporto si concentra sul ruolo e le possibili ricchezze del nostro Mar Mediterraneo) e, come paradosso dell’attuale modello di sviluppo globale, di ciò che comporta tradurlo dalla vecchia economia fossile a quella della transizione.


Gli interrogativi del rapporto Civiltà del Mare

Al momento, però, vi è una mappatura molto limitata degli oltre 350milioni di km2 di tutti i fondali marini. Si tratta solo di un quinto, di cui unicamente il 2% si basa su una rilevazione aggiornata. In pratica, ad oggi, conosciamo meglio la superficie della Luna che il fondo dei mari dove vorremmo proiettare questa competizione fra Stati, per un futuro di transizione energetica e per poter continuare nella produzione in alta tecnologia. Inoltre, per l'attività mineraria di profondità, raggiungere in sicurezza ed estrarre i noduli polimetallici da quei fondali, è necessario un alto livello ingegneristico, consapevoli anche dei rischi ecologici ed ambientali; anche se qui, e manco a dirlo, i pareri degli scienziati discordano ampiamente.

Il rapporto Civiltà del Mare sorvola sui rischi per un ambiente così delicato come quello marittimo (calore, rumore e versamenti chimici), ma evidenzia una questione cruciale per i diritti di esplorazione e di estrazione in ambiente subacqueo delle sue ricchezze: in pratica emerge prepotente l’urgenza di definire fino a dove può spingersi la sovranità di uno Stato, oltre i tradizionali confini terrestri e le miglia marine di acque territoriali? E, soprattutto, a chi dovrebbero andare i proventi di quelle estrazioni? In pratica, e vista la corsa alle ricchezze subacquee, e come è già accaduto con l’esplorazione dello spazio con i suoi non-confini, anche per l’ambiente marittimo e ancor più subacqueo non esiste più “come era vero nella modernità, una vita e un ordine marittimo completamente separati da una vita e un ordine terrestri”[10].

Ne risulta, infatti, una specie di ibridazione nel rapporto fra terra e mare, in cui emergerebbe la volontà di imporre una sorta di territorializzazione del mare, frutto naturale, a quanto pare, della globalizzazione che è anche rimodulazione della sovranità moderna, più che una sua crisi o un suo indebolimento. E in attesa che ci si avvii verso una regolamentazione internazionale globalmente condivisa, in grado di garantire soluzioni eque e non escluda, ad esempio, quei Paesi in via di sviluppo antistanti i fondali da esplorare, che non posseggono tecnologia e finanziamenti adeguati, tutto è destinato a bloccarsi, anche progetti pronti da oltre un decennio. Questo perché l’International Seabed Authority, agenzia delle Nazioni Unite preposta al riguardo, chiede tempo per esplorare i fondali, mapparli e poi decidere, a livello transnazionale, a chi andranno estrazione, lavorazione e relativi proventi. Ma si sa che l’attesa e le regole imposte stanno strette alla logica degli Stati in politica internazionale, soprattutto se in gioco vi è la leadership, quella strategica, che è poi il ruolo di potenza egemonica.


5 giugno: giornata mondiale dell'Ambiente, ma "la Terra è stanca di noi"

Insomma, la corsa a quanto pare affannata alle terre rare, sempre più preziose, costose e soprattutto ora ancora di appannaggio esclusivo di un player economico, tecnologico ed industriale potente e agguerrito come la Cina, vede un resto del mondo a rischio di perdita di competitività economica e, di conseguenza, di influenza politica. Eppure era evidente da tempo di come quei minerali fossero un’arma potente nelle relazioni diplomatiche, e non solo per via degli intensi rapporti di scambi economici e industriali fra Cina e Africa tesi a porre sotto il proprio controllo sempre più territori, in questo caso quelli africani ricchi di terre rare, strappandoli al nemico, come vuole la logica del gioco antico e tradizionale cinese del go. Già nel 2010, gli scontri fra Pechino e Tokyo sulle isole Senkaku si risolsero con restrizioni cinesi proprio alle esportazioni di metalli rari, strategici per l’unico settore trainante giapponese, ossia quello dei prodotti tecnologici. Ne seguì una tregua, proprio grazie alle terre rare. Non da meno, sempre nel 2010, all’indomani della decisione dell’amministrazione Obama di fornire armi a Taiwan per circa 6,5 miliardi di dollari, la Cina minacciò di sospendere le forniture di terre rare agli Stati Uniti. Ricatti, certamente, che però risolsero quelle tensioni, come è naturale che sia nella competizione fra potenze senza dover sempre ricorrere obbligatoriamente a mostrare i muscoli, puntare cannoni e lanciare missili. Eppure, e visti i presupposti, è chiaro già da tempo che la transizione energetica e quella digitale aggraveranno le tensioni e le discordie e non porranno fine alla geopolitica dell’energia, destinata invece ad essere esacerbata.

Le materie prime hanno quindi spesso cambiato il mondo e determinato fortemente la storia dell’umanità, e non sempre in meglio. Ma, ovvio, la natura non c’entra; è solo per il cattivo uso strumentale, come per abuso che ne ha fatto e ne sta facendo l’uomo. E, di fronte ai disastri ambientali, anche di queste settimane, proprio nella giornata mondiale che celebra l’Ambiente verrebbe da dire, anche per la sete di terre rare, “la Terra è stanca di noi”, riportando le parole di Sebastião Salgado, il più grande fotografo naturista documentarista vivente, non a caso un ex economista, anche perché pentito, appunto, di un sistema senza freni e senza più regole.


Note

[1] G. Pitron, La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione energetica e digitale, Luiss University Press, 2019, p.28. [2] Scandio, ittrio, lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio, lutezio e promezio. [3] G. Tappero Merlo, Terre rare e il dominio della Cina, in “GlobalTrends&Security”, 18/5/2011, http://www.globaltrendsandsecurity.org/1/terre_rare_e_il_dominio_della_cina_18_5_2011_5995734.html [4] C. Parthnemore, J. Nagl, Fueling the Future Force: Preparing Department for a Post-Petroleum Era, Center for a New American Security, Sept. 2010. [5] Ogni tonnellata di terre rare pure al 100% necessita almeno di 200mc di acqua che si carica di acidi e metalli pesanti. Cfr. Dwindling Supplies of Rare Earth Metals Hinder China’s Shift from Coal, in “TrendingTech”, 7 Sept. 2016. [6] https://www.insidescience.org/news/2019-year-fracking-earthquakes-turned-deadly [7] https://www.congress.gov/bill/111th-congress/house-bill/6160 [8] International Renewable Energy Agency (IRENA), Renewable Energy and Jobs- Annual Review, 2017. [9] I quindici metalli in questione sono l’antimonio, lo stagno, il piombo, l’oro, lo zinco, lo stronzio, l’argento, il nichel, il tungsteno, il bismuto, il rame, il boro, la fluorite, il manganese e il selenio. I cinque metalli aggiuntivi sono il renio, il cobalto, il minerale del ferro, il molibdeno e il rutilo. Si veda, De surprenantes matières critiques, L’Usine nouvelle, 10 luglio 2017. [10] AA.VV. , Civiltà del Mare. Geopolitica, strategia, interessi nel mondo subacqueo. Il ruolo dell’Italia, Roma, 2023, p. 18.


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