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Il racconto: "La maestra di Gianni Rodari"

di Marco Travaglini


Lo scorso 23 ottobre era il compleanno di Gianni Rodari, nato di sabato, nel 1920 sulle sponde settentrionali del lago d'Orta, a Omegna. Rodari è stato scrittore, poeta, giornalista, pedagogo, educatore, divulgatore, partigiano, comunista. Quasi tutti lo ricordano come il più grande scrittore italiano di favole e filastrocche del Novecento, ma non bisogna dimenticare che scrisse su quotidiani, diresse periodici, si distinse come uno dei più attivi promotori di associazioni di genitori e insegnanti (tra cui il Movimento di Cooperazione Educativa), fu funzionario di partito e lavorò in modo originale con le amministrazioni provinciali e comunali di tante parti d'Italia. Le esperienze di infanzia, tra i monti e il lago d’Orta, portarono ben presto Rodari ad affrontare e sovvertire i concetti più rigidi della disciplina utilizzando la leva creativa della fantasia. Ebbe una vita piena di esperienze intense che purtroppo terminò prematuramente il 14 aprile del 1980 quando non aveva ancora compiuto sessanti'anni. In eredità ci ha lasciato un’opera di critica al mondo e un messaggio di cambiamento fondato sulla forza della fantasia. La Porta di Vetro lo ricorda con un racconto di Marco Travaglini, racconto di immaginazione, in cui le uniche cose vere sono la storia di Rodari e l'ambiente omegnese.

Oltrepassati i novant’anni, parlando alle pronipoti, Maria Scrivani si lasciava andare sempre più spesso ai ricordi di quando, da giovane, iniziò a fare la maestra elementare. L’anziana insegnante (perché si è sempre insegnanti anche quando, terminato il servizio, si va in pensione) parlava di quei tempi con una punta di nostalgia per quella scuola più austera e frugale, dove i banchi erano di legno, doppi, con il sedile attaccato e, in un angolo, il calamaio che conteneva l’inchiostro per scrivere, intingendovi il pennino.

Eh, quante macchie e sbavature! Ma non era permesso di sprecar carta perché erano anni magri. S’iniziava con gli esercizi di scrittura: pagine e pagine di aste e rampini così, tanto perché gli alunni si abituassero a tenere il pennino in mano. Poi si passava alle lettere, una per volta. A come asino, B come barca, C come casa e così, fino alla zeta, al capolinea dell’alfabeto. Gli alunni erano molto numerosi e capitavano gli anni in cui ci si doveva arrangiare con i turni delle lezioni al mattino e al pomeriggio. E a noi povere maestre toccava un doppio lavoro ma, a quel tempo, era davvero una scelta, quasi una missione e ci si impegnava senza tante lamentele”. A scuola venivano con la cartella e già lì si vedevano le differenze: chi l’aveva di stoffa, chi di legno, chi s’accontentava di un filo di spago. Tutto in ragione della necessità, dovuta alla povertà; quasi mai per scelta. I più fortunati avevano l’astuccio, che conteneva la matita nera, una penna con pennino, una gomma per cancellare, la carta assorbente per asciugare l’inchiostro (ma non tutti l’avevano) e il temperino. “Chi non disponeva di quell’attrezzo doveva far la punta alle matite con un coltellino. E questo era uno dei compiti del bidello Tormacchini. Poi c’era il sillabario (il libro, l’unico), quaderni a righe e a quadretti. La maggior parte ne aveva uno solo, con la copertina nera. Il diario, quel tempo, non c’era: i compiti si scrivevano sul quaderno oppure si ricordavano a memoria. Anche gli avvisi a casa li facevamo scrivere sul quaderno”.

I ricordi dell’anziana insegnante sono come un fiume in piena. E spiega (come faceva un tempo, appunto, spiega..) che c’erano due alunni per ogni banco e la cattedra era più grossa e più alta di quelle di oggi, e stava sopra a una pedana, come un trono. La lavagna era di legno, con la superficie d’ardesia, piuttosto grande. Le tre pronipoti, incuriosite, continuavano a bombardarla di domande. E lei, paziente, rispondeva. “Le materie? Erano più o meno una decina. Forse meno che più. Vediamo un poco: c’erano l’italiano, storia, geografia, aritmetica, religione, cultura fascista, ginnastica, disegno e geometria. L’informatica? Ma, no. Che cosa dite!? Non c’era l’informatica a quel tempo, bambine mie. A malapena c’era il telefono a scuola e in quegli anni muoveva i primi passi l’Eiar, quella che poi divenne la RAI. La ginnastica si faceva vestiti come si era, con le scarpe normali. Alcuni bambini, i più poveri, avevano gli zoccoli. Il grembiule? Nero sia per i maschi che per le femmine. Ma in quegli anni era da poco finita la grande guerra e nei piccoli paesi s’andava a scuola anche senza grembiule, nonostante l’obbligo di indossarlo, perché non c’erano soldi e i più poveri non potevano permetterselo. Così quei bambini non avevano modo di nascondere i poveri stracci che portavano addosso”.




La bisnonna, precisando che il suo compito era di “insegnare a leggere, scrivere e far di conto”, ricordò che s’andava a scuola dal lunedì al sabato, tranne il giovedì, che era festivo. La giornata era divisa in due dall’orario: al mattino dalle 9 alle 12, al pomeriggio dalle 14 alle 16. Dalle 16 alle 17 si rendeva disponibile, per quanti ne avevano bisogno e non potevano permettersi di pagarselo, a fare un po’ di doposcuola per aiutare i bambini nello svolgimento dei compiti. Allora si festeggiava anche il 4 ottobre (San Francesco D’Assisi), l’11 febbraio (i patti Lateranensi, tra Stato e Chiesa, ma solo dopo il 1929), il 21 aprile (il Natale di Roma).Non si festeggiava il 25 aprile (non c’era ancora stata la Liberazione), il Primo maggio (la festa del lavoro non era gradita al regime fascista) e il 2 giugno, festa della Repubblica (perché regnava il Re di Casa Savoia). “Volete sapere delle gite? Si facevano sì, ma solo in paese, a piedi. Si andava fino a Crusinallo, a Bagnella, Cireggio o Borca. La scuola iniziava il primo ottobre e finiva il dieci giugno, quindi per fare le nostre uscite attendavamo la bella stagione”. Le domande erano tante e per tutte c’era una risposta. Parlava lentamente la maestra Scrivani ma i suoi ricordi erano precisi, puntuali. “I bidelli erano gente del paese (il Tormacchini, ad esempio, abitava nei pressi di piazza Salera), pulivano aule e corridoi, si occupavano delle stufe d’inverno e riempivano i calamai d’inchiostro. Ogni tanto in classe venivano il direttore o l’ispettore e talvolta anche il Podestà (una specie di sindaco) e il parroco. A scuola, i bambini giocavano a rincorrersi, a rimpiattino, a nascondino, durante l’intervallo. Alcune maestre obbligavano gli alunni a stare in classe ma io ero tra quelle che, anche per poco, una boccata d’aria nel cortile ai miei bambini non la negavo mai. Si andava a casa per il pranzo e si rientrava dopo”. La denutrizione, in quegli anni difficili, era generale: un uovo costava 25 centesimi ma non si poteva avere, neanche se si avevano in casa le galline, perché le uova raccolte si portavano dal tabaccaio per avere in cambio sale e fiammiferi o si vendevano per qualche spicciolo. Il latte si comprava solo per gli ammalati e lo forniva il signor Guglielmini che, nella parte alta di Cireggio, aveva una mezza dozzina di mucche. A volte, in ragione delle necessità e dei bisogni, mungeva gli animali all’istante, sul ciglio della strada. “C’era un mio collega che insegnava a Crusinallo, il maestro Piana, che durante la ricreazione, forniva ai suoi alunni l’occorrente per coltivare l’orto che stava proprio dietro alla scuola. Una specie di “orto di guerra”, molto spartano, dove crescevano po’ d’insalata e un le patate che, una volta diviso il magro raccolto, arricchivano la dieta dei ragazzi a casa”. E i bambini? Quanti ricordi, volti, voci. Ernestino, dai capelli rossi e il viso pieno di lentiggini, bravo con i numeri ma in perenne conflitto con l’ortografia. Maria Pia, capace di leggere a “macchinetta”, rapidissima mentre Guglielmina incespicava sulle parole, arrancando. Poi c’era stato Gianni. La maestra Scrivani raccontò d’aver capito subito che quel ragazzino aveva la stoffa per diventare qualcuno. Quando scriveva, in poche frasi, lasciava intuire una notevole fantasia nel comporre piccole storie, racconti, componimenti. “Era bravo, Gianni. Era modesto, serio. Si vedeva che dai genitori aveva appreso una buona educazione. Il padre, il panettiere, lo conoscevo solo di vista ma la sua mamma, la signora Maddalena, era proprio una gran bella persona”. Ricordava, in particolare, una filastrocca che Gianni aveva composto in occasione della festa di compleanno dell’altro bidello, Giacomo Gasperelli: (“Passan le stagioni sul lago e sui monti, tra Nigoglia e Quaggioni, piegando le schiene dei pochi e dei molti. Eppure i ricordi, sia brutti che belli, non piegan le gambe del Gasperelli. Racchiuso il suo corpo minuto nel camice nero, va sempre su e giù per lo stabile intero. Che sarebbe la scuola senza di lui? Malgrado l’età, è uno di noi”). Il bidello, d’animo buono sotto una scorza da finto burbero scoppiò in lacrime, commosso. Al piccolo Gianni il preside Solerti regalò un bellissimo libro illustrato con le favole di La Fontaine. Gianni, mostrando un’incredibile “fame” di storie e avventure, divorò il libro in quattro e quattr’otto, mostrando la sua innata passione per tutto ciò che gli dava possibilità di correre, libero e allegro, nei territori della fantasia. In quegli anni i giochi dei ragazzi erano molto spartani. Ci si accontentava di poco, anche perché la povertà materiale induceva a far funzionare al meglio l’intuito e la fantasia. Leggeva molto, divorando ogni pubblicazione ciò che gli capitava in mano e su un quaderno a righe dalla copertina nera scriveva tutto ciò che gli veniva in mente. Prendeva appunti, impostava piccole storie, filastrocche, brevi poesie. Di tutto era curioso. Guardando il padre, aveva appreso come si faceva il pane.

I genitori di Rodari

Si, perché Giuseppe, il papà di Gianni, originario della Valcuvia, trasferitosi per lavoro ad Omegna con la moglie Maddalena, sposata in seconde nozze, faceva il fornaio nella via centrale del paese, intitolata alla memoria di Giuseppe Mazzini. “Dovete sapere che Gianni teneva proprio a precisare di essere il figlio del fornaio. A scuola inventammo un gioco. Si doveva scegliere una parola e, partendo da quella, raccontare una storia. Gianni, una mattina, scelse la parola forno e raccontò che per lui significava uno stanzone ingombro di sacchi, con un’impastatrice meccanica sulla sinistra, e di fronte le mattonelle bianche del forno, la sua bocca che si apre e chiude, suo padre che impastava, modellava, infornava, sfornava. Era talmente precisa quella descrizione che tutta la classe s’immaginò d’essere in visita dal fornaio”. Gianni, nei suoi ricordi, era un bambino dalla corporatura minuta e dal carattere schivo, chiuso che gli impediva di fare amicizie e di legare con i coetanei. Molto affezionato al fratello Cesare, di un anno più piccolo, aveva poca confidenza con il fratellastro Mario, nato dalle prime nozze del padre e di dodici anni più vecchio, che aiutava il genitore nel forno. “Ad Omegna, Gianni frequentò le prime quattro classi delle scuole elementari ed è lì che lo incontrai, diventando la sua maestra”, precisò Maria. “Era incuriosito da ogni cosa che vedeva, ma soprattutto lo affascinava il lago, quel lago dove lo sguardo si perdeva verso Orta, stretto tra le rive di Pettenasco e Oira, era come un mare nelle sue fantasie. Dai racconti del Salera, il signor Michele Bellani, aveva scoperto i segreti della pesca o, almeno, quelli che si potevano raccontare perché su alcuni — come i luoghi dove si trovavano i persici o si pescavano abitualmente le trote — il vecchio Salera era “muto come un pesce”. Leggendo i pensieri e i brevi temi che riempivano il quaderno di lingua e grammatica di Gianni s’intuiva che quelli erano stati per lui gli anni più belli. Raccontava delle scorribande su e giù lungo la Nigoglia, da una riva all’altra di quel lago che “faceva di testa sua”. “Sì, bambine mie. Lo sapete perché questo lago è originale? Perché, invece di mandare le sue acque a sud, come fanno disciplinatamente il Lago Maggiore, il lago di Como e il lago di Garda, il Cusio le manda a nord, come se le volesse donare al Monte Rosa, anziché farle scendere, di fiume in fiume, fino al mare Adriatico. Se vi mettete a Omegna, in piazza del Municipio, vedrete uscire dal lago un fiume che punta dritto verso le montagne. L’avete visto, no? Si chiama Nigoglia e vuole l’articolo al femminile: la Nigoglia. Noi di Omegna siamo molto orgogliosi di questo fiume ribelle e diciamo in dialetto che “ la Nigoja la va in su e la legg la fouma nu”. Non guardatemi così perplesse! Significa, in italiano, che “la Nigoglia va all’insù e la legge la facciamo noi”. Rideva, tossendo un po’, l’anziana maestra e la più piccola delle tre ragazzine, temendo che la “nonna-bis” si strozzasse, le porse una bottiglietta d’acqua, pregandola di bere. I ricordi fluivano come un fiume in piena. Anche quelli meno belli. Infatti, per il piccolo Gianni, gli anni delle scoperte e dell’allegria vennero interrotti da una terribile disgrazia: il padre Giuseppe morì di broncopolmonite quando lui aveva solo dieci anni e la madre, a quel punto, preferì tornare — con l’intera famiglia — a Gavirate, il suo paese natale. Un lutto grave che racconto a scuola descrivendolo così: “L’ultima immagine che conservo di mio padre è quella di un uomo che tenta invano di scaldarsi la schiena contro il suo forno. E’ fradicio e trema. È uscito sotto il temporale per aiutare un gattino rimasto isolato tra le pozzanghere. Morirà dopo sette giorni, di bronco-polmonite “. E aggiunse: “L’ho visto più tardi, morto, sul suo letto, con le mani in croce. Ricordo le mani ma non il volto. E anche dell’uomo che si scalda contro le mattonelle tiepide non ricordo il volto, ma le braccia: si abbruciacchiava i peli con un giornale acceso, perché non finissero nella pasta del pane. Il giornale era La Gazzetta Del Popolo. Lo ricordo bene perché aveva una pagina per i bambini”. E’ una memoria triste per l’anziana maestra e sospirando cercò di scacciarla, soffermandosi su cose più allegre. “Dovete sapere che era un bambino con lo sguardo serio ma con i pensieri allegri. E aveva il pallino per le filastrocche. Ne componeva di strane. Pensate che, vedendo, un giorno, il vecchio Giacomo Lampresi (che tutti chiamavano Giaco),uscire dall’Osteria, barcollante e malfermo sulle gambe, ne compose una di getto, così, su due piedi. Mi sembra che facesse.. ah, sì, ecco.. Se la memoria non m’inganna, faceva così..“C’era un nonno di nome Giaco, sempre brillo ed ubriaco, e brillava in modo tale che la Giunta Comunale lo nominò fanale”. Aveva una fantasia divertente, scanzonata. Era proprio bravo, Gianni”.

I ricordi di Maria Scrivani non erano solo legati alla scuola. Quel ragazzino, come molti suoi coetanei, era rapito dal lago, dall’andirivieni delle imbarcazioni, dall’attività che ferveva sulle rive e, in particolare, in piazza Salera. Guardava ogni cosa con curiosità per poi andare a giocare all’oratorio dei padri lungo la Nigoglia, dove si correva sul “passo volante”, una semplice giostra, spinta dalle gambe degli stessi ragazzi. O per prendere alla Messa il biglietto che serviva per entrare, il pomeriggio, al cinematografo, dove gli eroi erano Ridolini e Tom Mix.

In quell’Omegna, borgo di fabbriche e operai, i ragazzi come Gianni erano tutti casa, scuola, oratorio e lago che a quell’epoca giungeva a pochi metri dai cortili in cui i bambini come Gianni crescevano. “Arrigo Galotti, amico di mio padre e anche del papà di Gianni, aveva in casa un baule nel quale riponeva vecchie riviste e giornali in cui si parlava del lago d’Orta.Una passione che aveva a che fare con l’intera vita di Arrigo ed il lavoro che l’aveva impegnato ben oltre la soglia dei sessant’anni: il fuochista sui battelli a vapore. Una miniera d’informazioni dalla quale avevo attinto anch’io per delle ricerche, negli anni degli studi. Anche a Gianni era stato concesso il privilegio d’affondare le mani in quel tesoro e leggere ciò che volesse. Così rimase affascinato dalla storia della navigazione sul Cusio”. Quest’ultima, grazie ai mezzi a vapore, ebbe inizio il 1° novembre del 1878; giorno di Ognissanti e , per circa dieci anni, lo specchio del lago d’Orta venne solcato da tre eleganti piroscafi, manovrati da intrepidi marinai d’acqua dolce. Il servizio pubblico di navigazione, collegando i principali paesi del lago, era così garantito dal Cusio, dal Mergozzolo e dall’Umberto I. Ci fu poi una pausa di qualche anno e poi, archiviate alcune sfortunate ma lodevoli iniziative private, il servizio di navigazione a vapore riprese. Si era nel 1909, all’indomani delle grandi regate del campionato italiano di canottaggio, disputatesi con grande successo in quel di Orta. Ma l’evento che richiamò grande attenzione e partecipazione della stampa e della stessa popolazione locale fu il “viaggio” del piroscafo Riviera, trasferito dal mare della Costa Azzurra alle acque del Cusio.

La maestra raccontò alle nipoti che, un giorno, sfogliando i quaderni che aveva a casa, rilesse il racconto che Gianni fece di quest’avventura dopo aver ne letto il resoconto su di un’ingiallita copia del settimanale borgomanerese dell’epoca, “L’Amico”, del maggio 1909. Come un vero reporter il giovanissimo cronista raccontò come la Società Anonima Cooperativa Navigazione sul Lago d’Orta decise di acquistare al porto francese di Marsiglia, il battello Riviera, un panfilo di 20 tonnellate di stazza, capace di una velocità di 10 nodi. L’imbarcazione venne trasportata su di un carro, trainato da una locomotiva, fino ad Orta. Gianni rimase affascinato da quell’impresa e ne descrisse la navigazione terrestre dal mare al lago, attraverso monti e pianure, colline e risaie. Quel viaggio durò parecchio tempo e terminò il 12 agosto 1909 quando, finalmente, il Riviera, giunto sul lago , venne varato alla presenza di tutta la popolazione di Orta.Non mancò, nel ricordo della maestra, il colpo di scena finale. Con una votazione popolare il battello venne ribattezzato Alfredo Olina e con questo nome viaggiò per il lago in compagnia del più vecchio Cusio.

Così, in quattro e quattr’otto, insieme alla vecchia vernice venne scrostato via anche il nome originale, cancellando l’antica radice salmastra con una titolazione più consona all’acqua dolce del Cusio dove la famiglia Olina era parte della storia locale. A questo punto l’anziana maestra, abbassando il tono della voce, quasi stesse confidando un segreto che solo le nipoti dovessero udire, disse: “La passione di Gianni per le barche e le storie di lago, ad un certo punto incrociò una delle più straordinarie vicende omegnesi. Lui, figlio del fornaio, appartenendo ad una famiglia che, pur vivendo dignitosamente, non navigava certo nell’oro, s’ingegnava a giocare con quanto gli capitasse sotto mano, mettendo a frutto l’inventiva e fantasia. Ma, in fondo, era pur sempre un ragazzino di otto anni e potete immaginare lo stupore che gli si disegnò sul volto quando un altro amico del padre, Alberto Moletta, gli portò in dono un modellino di latta raffigurante una motonave, prodotto dalla Cardini, la fabbrica di giocattoli omegnese”. Una fabbrica di giocattoli? A Omegna? L’incredulità delle nipoti della maestra obbligò l’anziana insegnante a precisare: “Sì, proprio così. Anzi, è il caso di spendere due parole per raccontare la vicenda di questa fabbrica, ma prima è utile una premessa”. L’anziana donna, schiaritasi ancora una volta la voce, iniziò a raccontare come i giocattoli, in Italia, apparvero sul mercato assai tardi rispetto al resto dell’Europa e solo dai primi anni ’20 in poi se ne svilupparono industria e commercio. Una di queste realtà fu la Cardini di Omegna. L’azienda, fondata nel 1916 durante la guerra, si specializzò nella lavorazione di lamiere metalliche e, dal 1922 al 1928, diventò famosa nel settore dei giocattoli. “Il giocattolo in lamiera, materiale scadente e facilmente deformabile, aveva molti punti a suo favore: un costo contenuto, una bella immagine grazie a disegni e colori molto belli, durava a lungo ed era riproducibile in serie”. In poco meno di un decennio la Cardini, utilizzando anche le pagine pubblicitarie del Corriere dei Piccoli, propose tredici giocattoli del tutto originali e innovativi per il loro tempo, spaziando tra locomotive e dirigibili, automobili e tram, navi, aeroplani e giostre. Questi giocattoli, tutti di ugual misura, erano inseriti all’interno di scatole cartonate che completavano il gioco:l’hangar per l’aeroplano, il garage per la limousine, la rimessa per il tram, il tunnel per la locomotiva e così via.La Cardini affidò il compito di illustrare le scatole ad Attilio Mussino, uno dei più brillanti disegnatori del Corrierino, noto per aver dato una nuova e moderna interpretazione grafica delle Avventure di Pinocchio illustrandole per l’editore Bemporad. L’azienda omegnese inventò anche il motto “Fate i capricci”, rivolgendosi idealmente ai bambini d’ogni età, e fu la prima in Italia a servirsi della stampa per pubblicizzare i prodotti. La pubblicità sulle pagine della Domenica del Corriere e del Corriere dei Piccoli proponeva il gioco come premio, come incentivo: “Papà, se tu comperi un giocattolo Cardini, il più bravo, il più studioso diverrò tra i bambini”. Come spesso accade però le cose belle durano poco e anche la storia della Cardini ebbe vita breve. Alla fine degli anni venti l’azienda fu colpita dalla crisi e chiuse i battenti. Lo stabilimento, acquistato dalla Carello S.p.A. di Torino, venne riconvertito alla produzione di accessori per il fiorente mercato automobilistico. A questo punto del racconto, tradendo una certa commozione, la maestra disse alle nipoti: “Voglio farvi vedere una cosa importante” e si fece accompagnare al museo allestito nei locali che un tempo ospitarono la ferriera di Omegna. Lì vicino, svettante nel cielo con i suoi settanta metri di mattoni rossi, era rimasto il suo simbolo: la ciminiera della vecchia acciaieria Cobianchi.

In quello che un tempo era uno dei capannoni, trasformato in museo, era ospitata anche una piccola esposizione dei giocattoli prodotti dalle aziende della città ( non solo dalla Cardini) e, tra questi, in una vetrinetta, si poteva ammirare una coloratissima motonave di latta. “Questa è l’imbarcazione di Gianni; quella che gli regalò Moletta. Un paio d’anni prima di morire, in una delle sue visite che non mancava mai di farmi quando veniva ad Omegna, mi consegnò questo modellino e disse: “Cara Maria, la tenga lei. Io, con questa barca, ho immaginato di viaggiare sulle navi che solcavano gli oceani tra un continente e l’altro, sui vascelli dei pirati o con le flotte che cercavano nuove rotte e nuove terre. E’ anche grazie a lei, alla mia maestra e agli insegnamenti ricevuti, che ho potuto farlo. E’ lei che mi diceva di usare la fantasia e di non smettere mai di guardare il mondo con gli occhi da bambino, anche quando sarei diventato adulto. E di credere nei miei sogni”.

Maria Scrivani, maestra elementare, quasi fosse una reliquia, quella miniatura di metallo l’aveva portata lì, “perché tutti possano vederla. Il fatto di tenerla a casa mia, di averla solo per me mi pareva un atto di superbia, un peccato d’egoismo. Sono certa che anche il mio Gianni approverebbe. Lui diceva che le cose belle sono di tutti e che tutti dovevano goderne”. Come quel cielo terso, senza nuvole che si vedeva dalle grandi finestre; azzurro come le fiancate di quella piccola imbarcazione di latta. Mentre s’incamminava verso l’uscita, un poco curva sul suo bastone, la nipote più giovane si soffermò a leggere una poesia, trascritta su un tabellone affisso alla parete. S’intitolava Il cielo è di tutti. L’autore era Gianni Rodari, il più grande scrittore per l’infanzia del Novecento italiano, nato ad Omegna il 23 ottobre del 1920. Lesse ad alta voce: “Qualcuno che la sa lunga, mi spieghi questo mistero:il cielo è di tutti gli occhi, di ogni occhio è il cielo intero. È mio, quando lo guardo. È del vecchio, del bambino, del re, dell’ortolano, del poeta, dello spazzino. Non c’è povero tanto povero che non ne sia il padrone. Il coniglio spaurito ne ha quanto il leone. Il cielo è di tutti gli occhi, ed ogni occhio, se vuole, si prende la luna intera, le stelle comete, il sole. Ogni occhio si prende ogni cosa e non manca mai niente: chi guarda il cielo per ultimo non lo trova meno splendente. Spiegatemi voi dunque, in prosa od in versetti, perché il cielo è uno solo e la terra è tutta a pezzetti”.



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