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Gaza, la tregua ritrovata

di Menandro|

Dopo undici giorni di guerra, a Gaza la tregua regge, sostenuta dalle dichiarazioni di Joe Biden, che nel frattempo non disdegna sostenere anche l’industria americana con la vendita a allo Stato d’Israele 0IOsridi armi e missili (Manifesto 18.5.2021) e gli incoraggiamenti dell’Occidente, mentre sulla Spianata delle Moschee gruppi di palestinesi e polizia israeliana “entrano a contatto”. Sullo sfondo, ma con grande desiderio di protagonismo, sia Netanyahu – che passerà alla storia come il politico più divisivo e aggressivo della giovane democrazia israeliana – sia gli estremisti e terroristi di Hamas, rivendicano la vittoria, incuranti della strage di vite umane, feriti, rovine e drammi psicologici inferti alle popolazioni civili. Il bilancio dei morti, comunque squilibrato tra palestinesi di Gaza (oltre 240) e ebrei (12), è soltanto una arida somma di cifre che non raccoglie e non raccoglierà mai i vissuti di paura e di terrore da cui le persone non si potranno liberare, neppure con la fuga dalla realtà. Un pedaggio psichico allo stato di guerra di cui non si parla mai o quasi. È illusorio immaginare che con il prevalere della violenza riuscire a sradicare l’odio degli animi senza una chiara volontà di pace e di convivenza tra i popoli. Violenza e odio che si alimentano, si irrobustiscono per tradursi in una avversione epidermica e storica, su cui fa leva Hamas per inculcare nella memoria “i segni del martirio” e seminare l’idea di una “guerra permanente” destinata in un vicolo cieco. Ma, per contrasto, utile a giustificare le operazioni belliche per nulla chirurgiche del nemico Netanyahu. Entrambe le parti, ma per ragioni diverse (in comune ci sono però i problemi finanziari) non hanno comunque risolto con la guerra le proprie contraddizioni interne. Anzi. Hamas avrà pure lanciato razzi su Israele, ma si ritrova sotto il bombardamento politico di Al-Fatah che non ha nessuna intenzione di abdicare al potere nella striscia di Gaza. Il governo di Abu Mazen è debole. Ma nel dramma della guerra, paradosso della conseguenza, la debolezza può diventare un pre-requisito per la costruzione della pace e la messa al bando dell’isterismo estremista e l’interlocuzione con le superpotenze e l’Unione Europea. Tra l’altro, l’opzione dell’Iran a favore di Hamas appare più cauta e prudente, e l’atteggiamento di sostegno del Qatar, che si è già spinto in una zona proibita dagli accordi di Abramo, potrebbe ridurre l’agibilità politica dei fondamentalisti palestinesi. L’incognita rimane il movimentismo di Erdogan e l’aiuto di risorse economiche e le forniture d’armi che il leader turco trasferisce ai palestinesi insieme alle sue visioni panislamiche finalizzate ad isolare Israele. Sull’altra sponda del fiume Giordano, il Likud e il suo leader Netanyahu continuano fare i rabdomanti alla ricerca di consenso e alleati per continuare a guidare il Paese (ed evitare nuove elezioni). La guerra, nonostante il classico effetto di trascinamento retorico, ha lasciato le cose ad uno stadio di precarietà primitiva. Peraltro Bibì, come è soprannominato Netanyahu, è sotto esame dell’ala giovanile del Likud che lo vorrebbe “pensionare” per dare corso ad una nuova stagione della politica israeliana. Del resto, proprio la tregua è la conferma del cedimento strategico di Netanyahu costretto ad subire la pressione internazionale promossa dal suo avversario Yair Lapid, capo del partito di centro sinistra Yesh Atid, cui il presidente d’Israele Reuven Rivlin ha dato l’incarico per la formazione del nuovo governo.

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