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Europa, la difficile via dell’autonomia strategica

di Stefano Marengo|

Da settimane autorevoli osservatori e il governo Draghi più o meno compattamente sostengono che la guerra in Ucraina ha costretto l’Europa a riscoprire le ragioni della sua unità e a ripensare la necessità di un esercito comune per rilanciare il processo di integrazione comunitaria. La questione è di fondamentale importanza e con la guerra alle porte dell’Europa merita di non essere presa alla leggera, né di essere oggetto di semplificazioni, se non altro per le numerose implicazioni a cui rimanda. Il fatto è che la decisione di inviare armi all’Ucraina, coeva a quella di aumentare le spese militari, non sottende necessariamente una politica di difesa comune, né una politica estera condivisa. Nello specifico, l’incremento delle spese militari non è recente, ma fu sollecitato dalla Nato nel 2014, dopo l’invasione russa della Crimea, su iniziativa dell’allora presidente Usa Obama e del primo ministro britannico Cameron. Una sollecitazione che l’Unione Europea, attenta a mantenere utili relazioni con Putin, lasciò cadere nel dimenticatoio. Fu un comportamento casuale? Non è credibile. Le locomotive d’Europa, Germania e Francia, e sulla loro scia l’Italia, insieme agli altri Paesi, soprattutto quelli aderenti al Gruppo di Visegràd, non erano intenzionati, infatti, a convergere sulle esigenze dell’Alleanza Atlantica proprio per non rendere deflagrante la vexata quaestio che opprime noi europei, ossia il problema del profilo politico dell’Europa stessa. Si è trattato di un esercizio di funambolismo che, tra alterne vicende, ha retto fino a oggi, ma che adesso non può più essere proseguito. Il punto nodale è che qualsiasi soggetto politico, per potersi dire “integrato”, “sovrano” e capace di “politiche comuni” (nel senso di “policy”), deve avere una politica (nel senso di “politics”) e una strategia autonome, irriducibili a quelle di altri soggetti. Ne consegue che l’Unione Europea, se vuole guadagnare una propria identità politica e non essere solo ciò che è, ossia un Leviatano burocratico neoliberista, dovrebbe innanzitutto darsi un profilo strategico autonomo. Il che non significa, sia chiaro, rompere automaticamente con Washington o, peggio, entrare in conflitto con gli USA. Significa, al contrario, poter coltivare i propri interessi legittimi in modo nuovo ed efficace, ossia, nel caso dell’Alleanza euroamericana, ponendosi su un piano paritetico con il proprio partner d’oltre Oceano. Se questi sono gli obiettivi che l’Europa farebbe bene a perseguire, è abbastanza chiaro che, nelle circostanze attuali, le decisioni prese in risposta al conflitto ucraino ci conducono, al contrario, in uno scenario in cui la strategia cui gli europei finiscono ancora una volta per adeguarsi rimane appannaggio della Nato e, nella sostanza, di Washington. E non si tratta soltanto di una questione formale. L’inerzia europea, anzi, è resa ulteriormente problematica, e pericolosa, dal fatto che mai come oggi, sul dossier ucraino, è stata così evidente la divaricazione di interessi tra le due sponde dell’Atlantico. Da una parte, infatti, abbiamo gli Stati Uniti che, sostanzialmente autonomi dal punto di vista energetico, vedono in uno scontro armato prolungato l’occasione per logorare la Russia con l’obiettivo di sbarazzarsi di Putin; dall’altra, invece, c’è l’Europa che dipende dal gas russo e confida nella rapida conclusione della guerra per ritornare ad una situazione ex ante di convivenza pacifica con Mosca. Del resto, è davvero così arbitrario o fantascientifico considerare la Russia parte dell’Europa per cultura e relazioni secolari? Queste considerazioni sarebbero tuttavia molto parziali se non capissimo che per gli Stati Uniti il principale teatro strategico oggi non è l’Europa, ma il Pacifico, e in particolare il Mar Cinese Meridionale. Il vero concorrente di Washington non è Mosca, ma Pechino. Non è affatto un caso che di recente gli USA abbiano rilanciato l’alleanza, sottoscritta nel 2017, con Australia, India e Giappone in chiave di contenimento della Cina e che da tempo ormai stiano concentrando nel sudest asiatico il top della loro capacità militare (truppe e tecnologia). È solo se si tiene conto di questo scenario globale che diventa pienamente comprensibile l’atteggiamento americano verso l’Europa e verso la Russia. In altri termini, se è vero che gli Stati Uniti intendono logorare la Russia con un conflitto prolungato, pur correndo il rischio di provocare un ulteriore avvicinamento di Pechino a Mosca, è anche vero che per la Casa Bianca il Vecchio Continente è oggi un teatro secondario. Da qui la decisione di Washington di “subappaltare” ai paesi europei il conflitto indiretto con Putin. E da qui l’ulteriore stimolo ad armare ancora di più l’Ucraina e, soprattutto, a incrementare la spesa per armamenti. Il tutto, beninteso, nell’orizzonte non oltrepassabile della Nato. In questo quadro, per ritornare al ragionamento da cui siamo partiti, non deve nemmeno stupire l’atteggiamento americano di tenere a battesimo programmi di difesa condivisi tra più paesi europei. Questi programmi, infatti, lungi dall’essere il primo tassello di una politica estera comune e di una comune strategia di difesa, necessariamente risponderanno sempre a precisi input dell’Alleanza Atlantica, e quindi degli Stati Uniti. Del resto, perché dovrebbe essere altrimenti? Ma allora è chiaro che è del tutto fuorviante intendere quello che sta succedendo sul caso ucraino come un “rafforzamento dell’Europa”, una “riscoperta da parte dell’Europa delle ragioni della sua unità”, un “rilancio dell’integrazione europea”. Siamo, purtroppo, distanti da tutto ciò. La situazione è dunque piuttosto contorta. Capire come uscirne è complicato. Il primo passo, però, dovrebbe essere quello di ammettere con grande onestà che l’Europa, finora, non è stata in grado di assumersi responsabilità strategiche in proprio e di esprimere un suo riconoscibile profilo politico. Altrettanto onestamente, occorrerebbe abbandonare l’atteggiamento inerte secondo cui le cose, non governate secondo chiari progetti politici, si sistemeranno con il tempo. Non riconoscere con franchezza questi limiti sarebbe esiziale per l’avvenire di noi europei. Tanto più che, soprattutto sul piano economico, se non si riprenderà rapidamente a percorrere con decisione la strada della diplomazia, non sarà necessario attendere il futuro prossimo per scoprire che già ora la nostra rinuncia a essere protagonisti si configura come un azzardo molto pericoloso.

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